InTheMovie: Summer (of love): memorie di un triangolo punk

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Abbiamo scoperto Lorenzo e il suo blog quando eravamo alla ricerca di grandi penne che ci parlassero di Cinema e Film: non potevamo trovare di meglio! Ironico, pungente, sempre sul pezzo, ci terrà compagnia con i suoi articoli. Non perdertelo!

Summer (of love): memorie di un triangolo punk

Accade in almeno quattro occasioni che Summer interrompa il flusso ordinario della realtà in nome del musical. Dobbiamo intenderci sul termine, perché è sempre più frequente l’incapacità di utilizzarlo anche nel linguaggio comune. Genere tra i più complessi e codificati del cinema classico, il musical è quello in cui si richiede una maggiore sospensione della credulità, dovendo accettare che i personaggi vivano cantando e ballando come noi parliamo e camminiamo. Naturalmente nel corso degli anni il genere si è espanso e dilatato, è stato ripensato da più autori, rivoluzionato e restaurato. Per limitarci ad esempi recenti: La La Land è musical puro; A Star is Born no, è un film con canzoni.

In Summer i protagonisti vengono calati in frammenti attraversati da canzoni anglofone ultrafamose: Psycho KillerThe PassengerPerfect DayAll The Young Dudes. Magari troppo famose, magari prive di quello stupore indispensabile affinché noi spettatori si sia davvero avvinti dalla fuga dal realismo. Eppure giuste, sia perché spiegano bene la colonizzazione dell’immaginario sovietico da parte del punk occidentale sia perché definiscono con nettezza l’orizzonte del film e dei suoi abitanti. Non sono solo cantate dalle voci spesso sgraziate di un coro di figuranti, ma è come se l’interpretazione data da quelle voci non madrelingua (siamo nell’Unione Sovietica degli anni Ottanta) contribuisca a tradurre in immagini i testi – con la complicità di efficaci animazioni grafiche molto schizzate – indicando traiettorie narrative quasi impossibili in assenza di questi momenti onirici, spiritosi, che probabilmente rinunciano presto all’esercizio dello stupore.

Sono elementi che diventano assist fondamentali per introdurre Summer ad un pubblico internazionale, platea forse meno informata sulle biografie dei protagonisti: si racconta, infatti, nella prospettiva di un grande romanzo collettivo, il triangolo sentimentale e musicale formato dal frontrunner dei Kino Viktor Koj, dal leader degli Zoopark Mike Naumenko e da sua moglie Natalia. Nell’evocativo bianco e nero di Vladislav Opelyants, interrotto da sprazzi di improvviso colore che vuole rendere eterni gli istanti di gloria quanto le ipotesi di futuro alternativo, si trova tutta l’inesorabile malinconia di una generazione perduta, che sognava di poter essere come i propri modelli anglosassoni e, stretta tra i vincoli imposti dal regime calante e gli annunci di un imminente mutamento politico (il Muro sta per cadere), immaginava qualcosa che non avrebbe mai visto davvero.

Non rischiamo gli spoiler rivelando che Coj morì in un incidente stradale nel 1990 e Naumenko appena un anno dopo in una tragica rapina, lasciando Natalia da sola a guardare la fine dell’Unione Sovietica e i nuovi modelli di vita capitalistici e ad erigere la leggenda dei suoi due “affetti” attraverso il memoir all’origine del film. Poeta del piano sequenza ai limiti del manierismo, Kirill Serebrennikov (già autore d’opposizione del perturbante Parola di Dio, attualmente detenuto in patria) ne crea uno finale straziante, concentrandosi su tre primi piani che sembrano cogliere la dimensione mitologica dei personaggi.

Non sono obiezioni del tutto prive di fondamento quelle avanzate dai commentatori più perplessi o dai detrattori: il disinteresse nei confronti nella storia, la superficialità nel trattare l’oggetto musicale, i virtuosismi di una regia estetizzante, l’occasione mancata di fabbricare l’epos di eroi “giovani e belli” dunque maledetti. Ma potrebbero essere tranquillamente ribaltate per la capacità con cui il regista compone un trascinante flusso di memorie, quasi una struggente Spoon River. Come non commuoversi quando il decisivo incontro estivo sulla spiaggia diventa un flashback che dall’album privato slitta verso la pagina di una narrazione generazionale? E, per quanto calcolato se non prevedibile, il ruolo dell’ambiguo narratore invadente e didascalico sembra cogliere perfettamente il senso di un racconto dove la biografia redatta dai testimoni è al servizio della reinvenzione ad uso e consumo dei posteri.

Lorenzo Ciofani for Siloud

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