InTheMovie: Il caso Bohemian Rhapsody, Lorenzo Ciofani

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Abbiamo scoperto Lorenzo e il suo blog quando eravamo alla ricerca di grandi penne che ci parlassero di Cinema e Film: non potevamo trovare di meglio! Ironico, pungente, sempre sul pezzo, ci terrà compagnia con i suoi articoli. Non perdertelo!

Liberamente ispirato ad una vita vera: il caso Bohemian Rhapsody

Come accade sempre più spesso, il biopic si sta confermando per il cinema americano (benché qui ci sia una coproduzione col Regno Unito, giustamente) il territorio più importante dove rimettere in discussione cosucce come la mitografia, l’iconografia, la religione laica del fandom… Quello che si sta rivelando un grosso (imprevedibile? almeno in questi termini, in Italia, forse) successo commerciale, è quanto di più classico e perfino anacronistico abbia compiuto il genere negli ultimi anni.

Per restare in campo musicale, dimentichiamo la scomposizione dell’io di Io non sono qui su Bob Dylan, quello straordinario mélo con Johnny Cash che è Walk The Line o il coinvolgente pur convenzionale RayBohemian Rhapsody fa ciò che vuole il suo pubblico meno pedante: racconta, in modo molto semplice, la storia di un mito seguendo uno schema consolidato, depotenziando il perturbante (che c’è, eccome se c’è), su un facile modello buoni/cattivi e come se tutto l’estro artistico sia l’esito di un disegno divino.

Non perdiamoci appresso alle quisquilie su sfondoni storici, approssimazioni grossolane, personaggi inesistenti, ovvie semplificazioni in nome dello storytelling. È un film, no? Davvero si chiedeva a Bohemian Rhapsody un racconto filologico sulla vita di Freddie Mercury e, in senso lato, dei Queen? Davvero l’urgenza era quella di rivivere, attraverso un biopic, un percorso esistenziale che corrispondesse alla realtà? Siamo tutti bravi a soppesare gli errori e le menzogne di un’opera che, scegliendo quel titolo, sta dichiaratamente attuando una scelta di campo: è epica, mitologia, leggenda. Siamo nel cinema americano, parafrasando John Ford: quando la storia incontra la leggenda, si scriva la leggenda.

Se da una parte sembriamo non essere più pronti al racconto di vite romanzate con tutto ciò che comportano, è pur vero che, dall’altra, abbiamo oggi a disposizione risorse informative che ci permettono di ripercorrere quelle biografie senza il bisogno di una rielaborazione cinematografica. Anzi, per certi versi, rielaborare a piacimento la vita di Mercury è quanto di più onesto si potesse fare nei confronti di un personaggio con un enorme problema d’identità, sfuggente e tormentato il giusto per essere protagonista di un tale racconto di ascesa, caduta e resurrezione, come se la sua stessa vita – è questa la tesi del film – sia leggibile attraverso le canzoni scritte con la band: l’amicizia, l’amore della vita, l’empatia, dar voce ai reietti.

In questo senso, Bohemian Rhapsody potrebbe essere un film di dieci, venti, trent’anni fa, un manuale su come si fa un’agiografia disseminando moralismi qua e là, eliminando quasi del tutto il portato sessuale di un’icona gay così da renderlo una vittima di un mondo dissoluto ed approfittatore che lo porta sulla cattiva strada. Tant’è che Anthony McCarten, al terzo biopic dopo il supremo L’ora più buia e il piattissimo La teoria del tutto, sceglie dei valori trasparenti e costruisce tutto ad uso e consumo di un pubblico trasversale per età e censo.

Perciò è molto convincente il casting di Rami Malek, un corpo estraneo come quello di Mercury (di origini egiziane l’attore, proveniente da Zanzibar il cantante), sulla carta non somigliantissimo e proprio per questo sintomatico di questo tipo di operazione, con la protesi dentaria e i baffi posticci a simboleggiare qualcosa di irrimediabilmente falso e dunque credibile sul grande schermo. È soprattutto per merito del suo istrionismo se, dopo oltre cento minuti molto fiacchi e poco avvincenti, l’esibizione finale al Live Aid procura un’inattesa e fortissima emozione.

Lorenzo Ciofani for Siloud

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