InTheMusic: Rocco Rosignoli, interview

Nome: Rocco
Cognome: Rosignoli
In arte: Rocco Rosignoli
Età: 37
Città: Parma
Nazionalità: Italiana
Brani pubblicati: Sul selciato di Piazza Garibaldi, Giordano Bruno, L'uomo lupo
Album pubblicati: Uomini e bestie (2011), Testuggini (2013), La bella che guarda il mare (2014), Scansadiavoli (2015), Shir (2018), Tutto si dimentica (2019), Canti Rossi (2020)
Periodo di attività: dal 2004
Genere musicale: Canzone d'autore, world music, folk
Piattaforme: YouTube, Spotify, Soundcloud, iTunes, ecc.

Rocco Rosignoli

Chi è Rocco Rosignoli?

Sono un musicista di Parma, un cantautore che suona diversi strumenti e che campa di musica. Amo le canzoni e ormai da molti anni esploro il canto politico, sociale, di lotta e di lavoro – dirigo anche OltreCoro, formazione polifonica dedita a questo repertorio.

Ho trentasette anni e una laurea in lettere, vivo con una splendida compagna e due gatte e siamo in attesa di una bimba che nascerà a luglio. A unire me e la mia compagna Alice è stata un’altra delle grandi passioni della mia vita: quella per l’ebraismo. Ci conoscemmo nel 2004 a un corso di ebraico. E alla musica ebraica afferisce anche parte della mia attività: oltre ad avere lavorato con Lee Colbert, cantante della Moni Ovadia Stage Orkestra, collaboro attualmente con Miriam Camerini nello spettacolo “Messia e Rivoluzione” e ho un mio programma di musiche di matrice ebraica, che dal 2018 è anche un cd intitolato “Shir”, che in ebraico vuol dire “canto”.

Sei fortemente attivo nel mondo della musica. Facciamo, quindi, un passo indietro e cerchiamo di ripercorrere insieme il tuo percorso all’interno di questo mondo: come nasce questa tua passione?

Il ricordo più remoto legato alla musica è una chitarra, che stava in casa mia appesa a un muro, e che nessuno sapeva suonare: l’aveva trovata mio zio in un locale che aveva gestito per breve tempo. Era malconcia: lui era un falegname e la restaurò. Ma per anni rimase un oggetto d’arredamento.

A undici anni volevo suonare le canzoni di Guccini e mia madre mi iscrisse ad una scuola di musica. Mi insegnarono le basi della chitarra classica. Lo trovai noioso e soprattutto non mi fu utile per imparare le canzoni di Guccini… e quindi dopo due anni mollai. Poi comprai un libretto degli accordi (all’epoca YouTube e i tutorial erano ancora fantascienza) e poco a poco imparai ciò che m’interessava. Allora non lo sapevo, ma quei due anni di chitarra classica mi avevano dato una base molto solida per studiare da autodidatta. Da lì in poi, fu tutto un crescendo: cominciai a scrivere canzoni e passai alla chitarra acustica. Poi tornai alla classica, presi a studiare violino, entrai come mandolino secondo in un’orchestra di plettri, studiai armonia e teoria musicale e approfondii i temi della trasmissione della memoria orale. A 23 anni mi laureai in lettere con una tesi che affrontava i rapporti di Bob Dylan con gli scritti di Thomas Eliot e come i cantautori italiani avessero usato Bob Dylan come modello e fonte. E a quel punto già suonavo le mie canzoni in giro.

Immaginiamo che tu sia molto vicino al filone cantautoriale della musica italiana, ma supponiamo che tu sia un grande ascoltatore di musica classica o comunque strumentale, giusto?

Sono sempre stato un onnivoro, sia come lettore che come ascoltatore. Certamente i cantautori sono stati la mia prima passione, Guccini per primo, poi De André, Bob Dylan, Leonard Cohen. La musica classica è una passione più tardiva, ma non meno forte.

Il mio compositore preferito è indubbiamente Beethoven. Adoro anche Bach, Mozart è un genio ma mi emoziona meno; Schubert invece mi piace un sacco. Ascolto molto anche musica cosiddetta “etnica” o “world”, che spesso si mischia alla canzone d’autore di altri paesi, vicini e lontani, facendomi scoprire nuovi suoni e nuovi strumenti, ma anche nuovi modi di arrangiare e gestire le differenti timbriche.

Il tuo essere, allo stesso tempo, musicista e cantautore ti permette di usare tua musica per raccontare qualcosa a chi ti ascolta. Cosa cerchi di comunicare, precisamente, con i tuoi brani?

Be’, la prima cosa che mi viene da dire è che, se avessi qualcosa di preciso da comunicare, lo farei direttamente. Se invece scelgo di comporre una canzone, o di scrivere un tema e poi arrangiarlo, o ancora di scrivere un testo, è perché c’è un qualcosa che sento che non ha una forma. E allora devo essere io a dargliela e gliela do costruendo qualcosa.

La musica ha un grande vantaggio comunicativo, che è l’immediatezza: non ha bisogno di filtri per muovere gli animi, ci scuote, ci cambia l’umore con facilità, senza che abbiamo bisogno di “capirla”. E questo rende il suo “messaggio”, quando c’è, aleatorio, sfocato, impreciso. È parte del suo fascino, la chiamano “polisemia”, ma è anche impossibilità di dire.

Per il mio nuovo album il discorso è simile, ma in parte diverso: è un disco con un impianto ideologico, un disco che racconta dei tentativi di rivoluzione che ci sono stati nell’arco dello scorso secolo, di ciò che voleva chi queste rivoluzioni cercava di farle, di come questi uomini e donne sono stati sconfitti, oppure di come hanno scoperto che la loro vittoria non era la stessa di coloro per cui combattevano. Segue un percorso, cerca di dare una forma cantata alle lotte operaie, a quel misto di idee e sentimenti che, semplificando, ci fanno pensare che “gli uomini son tutti uguali”, per tornare a Guccini.

La tua musica è una poesia cantata, il tuo essere polistrumentista garantisce che la strumentale non prevalga mai sulle parole. È giusta la definizione: “un viaggio poetico e sonoro nelle profonde trame della musica”. Come descriveresti ciò che fai?

Inizio la mia risposta ringraziandoti di cuore per questi complimenti e per il vostro ascolto così attento e interessato. È raro, e non mi è dovuto, e mi emoziona. Grazie.

Vi risponderò, come ho fatto già altre volte, che più che pensare alla canzone come poesia in musica preferisco fare il contrario: pensare alla poesia come a una canzone senza musica. In effetti, le forme poetiche derivano da forme cantate; i lirici greci suonavano, appunto, la lira per cantare i loro componimenti e i trovatori me li immagino più simili ai cantautori che ai poeti del Sette-Ottocento… ma questa è una boutade. Di sicuro la musicalità della parola è da sempre un ingrediente della poesia e quando non c’è, ne predica la negazione, sottintendendone la regolarità, come fa la proverbiale eccezione.

Ciò che faccio è difficile da descrivere forse per me più che per gli altri. Per me, si tratta di dare forma artistica a un modo di sentire mio, che spero possa appartenere anche ad altri. Ed è un modo che passa attraverso delle parole, che hanno un suono e a una melodia, che sono io a decidere, cercando di dare al tutto un senso emotivo con l’ausilio di una materia ben disciplinata, la musica, che ho studiato con grande rispetto. E poi ci sono dei suoni che accompagnano queste parole e la loro melodia, che devo sempre scegliere con grande attenzione tra tutti quelli che ho a disposizione. È una cosa complicata, per ottenere quello che in fondo è un risultato semplice – ma, almeno nelle mie intenzioni, non banale.

Insomma, oltre ad essere un musicista ed un cantautore sei anche un poeta. Come nasce la tua passione per le poesie e quando queste si sono trasformate in canzoni?

In effetti, la prima cosa che pubblicai, tanti anni fa, era un libricino di poesie miste a prose intitolato “Zeppelin” – che tra l’altro lo scorso anno, grazie alle Edizioni Il Foglio, ha avuto una nuova edizione, a più di dieci anni dalla prima.

Canzone e poesia sono sempre state per me due parenti strette e mi è difficile dire in che momento le poesie son diventate canzoni, o viceversa. Forse tutto nasce dalle filastrocche che mi recitava la mia nonna quand’ero bambino. Forme ritmiche di parola non cantata, che poi io cantavo alla famiglia imbracciando una chitarra giocattolo seduto sull’ampio davanzale della nostra casa di montagna… e in effetti, se ci penso, questo spiegherebbe anche come mai, a poco a poco, mi sono riavvicinato nella mia professione di musicista al mondo dell’oralità.

Come nasce un tuo brano?

Non c’è mai stato un metodo preciso. Certamente una cosa che non è mai cambiata è che non mi sono mai forzato a scrivere. Non sono uno di quelli che crede nella sacralità dell’ispirazione, ma di certo ho sempre faticato a scrivere su commissione.

Per fare un esempio: la canzone “Gappisti”, che è presente in quest’album, la composi in una mezz’ora, dopo che mi ero imbattuto in un bando di concorso per canzoni inedite sulla Resistenza. “Peccato, non ne ho”, pensai. E proprio in quel momento, dal nulla mi arrivò in testa l’idea di raccontare la Resistenza in città. “Gappisti” nacque così, da uno spunto esterno, dalla confidenza con il repertorio del canto partigiano e dal piacere di scrivere che cresceva strofa dopo strofa, con le parole che si incastravano tra loro senza fatica, facendomi sorridere a ogni verso ben riuscito, a ogni rima azzeccata. Mi successe Rocco Rosignoli, Canti Rossiuna cosa simile quando scrissi “Sul selciato di Piazza Garibaldi”, che era nel mio penultimo cd “Tutto si dimentica”: la canzone racconta dell’eccidio che ci fu a Parma il primo settembre del 1944. l’amico Nicola Maestri perse suo nonno in quell’eccidio e fu lui a chiedermi di scrivere quella canzone. Gli dissi di sì, ma non riuscii a scrivere una riga per due anni, forse anche tre. Poi, quando mi venne l’idea, il testo nacque in una quarantina minuti. Un altro mio vecchio brano, invece, intitolato “Tamperdù”, ebbe una genesi tutta diversa: nacque come una serie di pure suggestioni, di immagini che si inseguivano, senza un senso preciso, senza livelli di interpretazione, se non a posteriori. E fu proprio una di quelle immagini che diede il titolo al cd che conteneva la canzone, “Testuggini”:E ho pensato di mettere il volto alla sabbia / e parlare alle uova deposte / da enormi testuggini, vecchie di secoli / splendide e senza memoria”. Una serie di versi che non so cosa voglia dire, ma che mi dà una serie di emozioni, che erano quelle che provavo quando li scrissi. Forse non c’è un metodo, ma solo un obiettivo: quello di arrivare al cuore di un’emozione, e di afferrarla per trasmetterla a qualcun altro.

Il tuo nuovo album si intitola “Canti Rossi” e nasce con il sogno di “levare in alto il canto e risvegliare le coscienze”. Tra le altre cose, è anche patrocinato dall’ANPI, ovvero l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Ci dici qualcosa di più?

Non è la prima volta che ANPI approva un mio progetto e mi onora del suo patrocinio. All’ANPI sono iscritto da molti anni e nella sede di Parma svolgo anche un’attività di militanza. La mia militanza è anche politica in senso più ampio e alla tradizione politica da cui provengo ho voluto dedicare questa raccolta di canti. Sono quelli che raccontano gli ideali che ci guidano nella lotta quotidiana, che sia di classe o contro il fascismo – che è un aspetto della prima. Certo, risvegliare le coscienze è un compito troppo pretenzioso per un semplice disco. Ma intanto è il mattoncino che io posso mettere.

Ormai sei attivo sulle scene da più di dieci anni, hai inciso già numerosi dischi e hai fatto anche collaborazioni di prestigio come musicista. Quali progetti hai, invece, per il futuro?

Se penso a quando sono partito, mi sembra incredibile tutta la strada che ho fatto. Quando mi laureai, ascoltavo con curiosità e ammirazione i dischi di Max Manfredi, un vero genio e il maestro che mi sono scelto, e Alessio Lega, grande autore e conoscitore enciclopedico di tradizioni musicali di tutt’Europa. Oggi non solo ho collaborato con loro, ma abbiamo un rapporto di amicizia, di confidenza. Con Max suono ogni volta che si trova nella mia zona, lo accompagno col mandolino e col bouzouki; con Alessio ho girato tutta Italia per due anni buoni, dai campeggi sperduti nel mio appennino al prestigioso FolkClub di Torino, passando per Lecce e Sanremo, al Tenco. Grazie ad Alessio ho conosciuto anche Davide Giromini, un talento geniale, magnifico fisarmonicista folk-punk, cantautore con una forte visione politico-esistenziale. Anche lui ora è un amico importante e abbiamo condiviso palchi e ore di studio. E poi c’è Miriam Camerini, con lei portiamo in giro uno spettacolo bellissimo sulle canzoni del Bund, il partito socialista ebraico, insieme ad Angelo Baselli e Gianluca Casadei, musicisti fantastici. Ho imparato tantissimo lavorando con tutti loro e anche con quelli che non ho lo spazio di citare, con cui ho lavorato in studio, in teatro, dal vivo, su schermo, suonando musica originale o cover, facendo spettacoli o mero sottofondo.

Per il futuro, ci sono diversi progetti, sia letterari che musicali: c’è un romanzo in cantiere, c’è un saggio su Leonard Cohen quasi pronto – e poi partirò alla caccia di editori. Ma al momento, l’ambizione più grande è quella di tornare alla normalità. Nel momento in cui scrivo le funeste Idi di Marzo del 2020, l’Italia è travolta dall’epidemia di Covid-19, e qui a Parma la situazione è grave. Ogni giorno cade qualcuno, a volte qualcuno anche molto vicino a te. Io spero tanto che il 25 aprile di quest’anno potremo festeggiare doppiamente. A luglio nascerà la mia bambina e vorrei che nascesse in un mondo più sereno. Ma so già che sarà un mondo diverso.

C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?

Vorrei dir loro che torneremo presto a cantare tutti assieme e ad essere felici senza una ragione. Come a una grande festa popolare, come dopo la fine di una guerra. Io lo dico e spero tanto che sia vero.

Rocco Rosignoli for Siloud

Link: www.roccorosignoli.com
Facebook: Rocco Rosignoli cantautore
Instagram @roccorosignoli
e-mail: roccorosignoli@gmail.com
Credits: Giulia Massarelli

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