Marta Arpini è una cantante, una compositrice e una cantautrice originaria di Crema ma che oggi vive ad Amsterdam. Fa la musicista, si esibisce, insegna canto, compone, co-gestisce una piccola rassegna di house concert, le piacciono l’illustrazione e il video making, legge gialli. Tra le lezioni di pianoforte e di canto e i suoi studi al conservatorio, senza considerare la musica che ascolta tutti i giorni, Marta è davvero piena di riferimenti musicali. Ha dato il suo contributo in diverse band, esperienze queste che porta dentro e che l’hanno aiutata a definire quella che è oggi. Con “Storyteller” ha avviato ufficialmente la sua carriera da solista e, per di più, è riuscita a dare una firma italiana ad un progetto alt pop.
Nome: Marta
Cognome: Arpini
In arte: Marta Arpini
Età: 25
Città: Amsterdam
Nazionalità: Italiana
Brani pubblicati: Storyteller (solista), Paper Boat (tiigre)
Album pubblicati: Forest Light (Marta Arpini Forest Light)
Periodo di attività: dal 2016
Genere musicale: Alt Pop, Dream Pop, Avant Synth Folk, Jazz Pop
Piattaforme: Spotify, YouTube, Apple Music, Bandcamp, Soundcloud

Chi è Marta Arpini?
Sono una cantante, una compositrice e una cantautrice. Oddio, prima di tutto sono una persona! Ma si sa che tutti vogliamo identificarci sempre totalmente con ciò che facciamo, soprattutto se è una cosa bella che ci piace. Allora sono una persona che canta, scrive musiche e parole.
Vengo da Crema, ho 25 anni e vivo ad Amsterdam. Faccio la musicista, mi esibisco, insegno canto, compongo, co-gestisco una piccola rassegna di house concert, mi piacciono l’illustrazione e il video making, leggo gialli.
I tuoi primi approcci con la musica risalgono alle lezioni di pianoforte che prendevi da piccola. Come si è sviluppato poi il tuo percorso in questo settore?
In verità la prima attività musicale che io abbia mai fatto è stato cantare in un coro di bambini! Non lo menziono mai perché ero veramente piccola, però dovrei, perché molte di quelle canzoncine me le ricordo ancora adesso. Alle elementari ho iniziato a studiare pianoforte privatamente, ma non sono mai stata un’allieva modello. Mi agitavo moltissimo se dovevo suonare in pubblico e non volevo nemmeno che i miei genitori mi sentissero quando dovevo praticare. Quando ho iniziato a prendere lezioni di canto, a 12 anni, temevo sarebbe stata la stessa storia; invece ho scoperto che cantare, anche su un palco, mi faceva solo sentire bene, presente, viva e a mio agio.
Dai miei 12 ai 18 anni ho studiato canto moderno, teatro e pianoforte in diverse scuole private tra Crema, Lodi e Milano. Ho iniziato ad appassionarmi al jazz. Mentre terminavo il primo anno di Lettere Moderne in Statale a Milano, ho deciso di iscrivermi anche al corso di laurea triennale in canto jazz delle Scuole Civiche. Per un po’ ho portato avanti i due studi parallelamente, ma quando ho iniziato a lavorare seriamente come musicista, con concerti e serate, ho capito che concentrarmi solo sulla musica sarebbe stato un bel regalo da fare a me stessa. Mi sono laureata in canto jazz una prima volta; mi sono laureata una seconda volta, con il master in jazz vocals presso il Conservatorium van Amsterdam, nel giugno 2019. Ora sono fuori da qualsiasi tipo di scuola e mi impegno per dare una direzione ancora più solida e precisa alla mia carriera come musicista.
Perché hai scelto di spostarti proprio ad Amsterdam?
Proprio per continuare il mio percorso di studi sul jazz. Amsterdam ospita uno dei conservatori più prestigiosi a livello europeo e forse mondiale; quando mi sono laureata in Civica sapevo che volevo qualcosa di più e ho voluto puntare al master program del Conservatorium. Ho superato le audizioni e sono stata ammessa e non ci ho pensato due volte. Mi sono trasferita con l’idea di completare gli studi e poi chissà; dopo aver preso il diploma, ho deciso di restare.
Nel frattempo, tra le mura della scuola, avevo dato vita a diversi progetti musicali – un quintetto jazz pop, Forest Light, e la mia band dream pop/indie rock tiigre, con cui ho iniziato a focalizzarmi sullo sviluppo del mio linguaggio come cantautrice -, progetti che costituivano una valida motivazione per rimanere, e continuare a farli crescere. La mia vita era diventato un bellissimo Giano bifronte, con una faccia rivolta all’Italia e una all’Olanda. Il conservatorio qui è stato un nido di fondamentale importanza, anche a livello sociale e relazionale; è una struttura che accoglie e aggrega musicisti che vengono letteralmente da tutto il pianeta e che non avrei potuto conoscere in nessun altro modo. L’interazione e l’essere partecipe di questa forma di multiculturalismo si sono presto trasformati in un bene troppo prezioso per rinunciarvi. Restare ad Amsterdam è anche un omaggio quotidiano a questa ricchezza umana e musicale, che io trovo fortemente stimolante.
Tra le lezioni di pianoforte e di canto e i tuoi studi al conservatorio, senza considerare la musica che ascolti tutti i giorni, immaginiamo tu sia piena di riferimenti musicali! Quali sono quelli che ti influenzano di più?
Ah, gli ascolti! Mi sembra che la mia vita sia stata un po’ scandita da queste piccole ere musicali e alcune sono cicliche o sotterraneamente sempre presenti. Per anni, soprattutto quelli della mia formazione accademica, non ho ascoltato altro che jazz e musica strumentale. Hank Mobley, Sonny Rollins, Chet Baker, Monk, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, tutti i classici della tradizione… Ma questo succedeva dopo aver fatto indigestione di Beatles, Elliott Smith e Jeff Buckley al liceo. Oggi sto tornando a quegli amori atavici e potenti, i cantautori, arricchendo l’antologia e mescolando artisti della musica improvvisata insieme a tutto quel pop che mi piace, pop inteso come grande agglomerato e pot-pourri di stili e gusti in cui anche la parola condivide una posizione di profonda rilevanza all’interno del discorso musicale.
Sono un’ammiratrice di Adrianne Lenker e Buck Meek e quindi, ovviamente, anche dei Big Thief; continuo a essere ossessionata da Elliott Smith; poi amo Chris Weisman e Ryan Power, due cantautori alternativi underground e meno conosciuti, la cui stranezza e il genio armonico sono una grande fonte di ispirazione in questo periodo. Credo che se non avessi iniziato ad ascoltare loro, oggi non scriverei musica come la scrivo. Amo Bill Frisell (sulle cui composizioni ho scritto la mia tesi di master), Julian Lage (sì, ho un debole per la chitarra), i Wilco, da sempre; mi piace Alan Hampton, mi piace Lomelda, Sufjan Stevens, Becca Stevens, Rufus Wainwright, il violoncellista Hank Roberts, Andy Shauf, i Grandaddy, i Beach Boys, i Dirty Projectors… Poi ho un gran debole per la musica pop vocale anni ’40/’50 e per tutta la musica “vintage”, quasi (!) cheesy: Chordettes, Platters, Ink Spots, Bobby Vinton, Skeeter Davis…
Prima di conoscere i tuoi progetti più recenti, vorremmo scavare un po’ di più nel tuo passato. Hai dato il tuo contributo in diverse band, esperienze queste che porti dentro e che sicuramente ti hanno aiutata a definire quella che sei oggi. In cosa ti hanno segnata?
Avere o essere parte di un gruppo, costruire un progetto stabile con altri musicisti è una lezione di condivisione e di impegno incredibile. Sono sempre stata piuttosto incapace di mettere me stessa sotto i riflettori, in qualità di assoluta protagonista, perché durante i miei anni più formativi ho sempre e solo avuto band, quindi progetti in cui io ero e volevo ritenermi una parte del tutto, anche se spesso scrivevo il repertorio e/o ero la leader. Mi sembrava comunque concettualmente sbagliato e non mi piaceva essere il centro della questione in maniera esclusiva, perché la musica, alla fine, era, ed è, il prodotto del contributo essenziale di ciascun membro. Nonostante oggi stia imparando a valorizzarmi un po’ di più e a puntare anche sulla mia identità individuale, come con questo nuovo progetto nato da Storyteller, ho sempre avuto questa forma mentis; credo che la musica non si faccia mai veramente da soli ed io ero troppo grata ai miei amici e colleghi perché mi incoraggiavano e mi seguivano, si imbarcavano nei progetti insieme a me, e così nasceva questo meccanismo per cui ci si insegna le cose a vicenda – che siano strettamente relative alla musica, o questioni di attitudine e di prospettiva, di gestione delle responsabilità.
Mi piace condividere un processo creativo, coinvolgere, essere una squadra, fidarmi degli altri, diventare una famiglia intorno a un’idea e svilupparla insieme, con amore ed empatia. Ti fa sentire connesso, più forte, più in grado di crederci, di scuotere il mondo. Se oggi ho le idee più chiare su chi e come voglio essere, anche da solista, lo devo anche agli altri, alla crescita nutrita dallo scambio continuo con altri musicisti.
Passiamo ora ai tuoi progetti più recenti. Da solista, riesci a creare emozioni e sensazioni molto contrastanti tra loro ma che nel complesso funzionano alla perfezione! Come si è sviluppata la tua ricerca di questo sound?
Grazie! Fin da che ho memoria, sono sempre stata toccata e colpita dalla dolcezza in musica, tradotta anche in senso timbrico, non solo espressivo. Chet Baker che canta My Ideal è una cosa meravigliosa, ma Chet Baker che canta My Ideal accompagnato da Russ Freeman alla celesta è una cosa che mi farà andare in sollucchero per sempre. I carillon, i suoni piccoli, teneri, malinconici o sognanti mi hanno sempre affascinata. Hanno qualcosa di remoto e commovente, di sospeso, di fragile e incantato, di eterno, in un certo senso. Sono quasi ‘infantili’ e l’infanzia è sempre stata un luogo mentale dalle forze magnetiche potentissime per me. Non a caso, anni fa ho iniziato a cantare accompagnata dal vibrafono: prima in duo con Nazareno Caputo, vibrafonista insediato a Firenze, poi con Eduardo Cardinho nel mio quintetto Forest Light; il vibrafono ha rappresentato un po’ il coronamento di questo anelito alla dolcezza – e stiamo comunque parlando di strumenti acustici, senza l’intervento dell’elettronica.
Nella mia band tiigre, all’inizio io cantavo e suonavo il glockenspiel, felicissima per questo minuscolo dettaglio sonoro. Quando, di recente, ho iniziato a mettere le mani in pasta con Logic e ho avuto a disposizione tutti i suoni di synth possibili immaginabili, ho creato e prodotto le mie demo con: vibrafoni, marimbe, celesta, glockenspiel, wurlitzer, tastierine quasi, se non del tutto, giocattolo. Un trionfo di campanule e altre amenità. Poi cercavo di aggiungere chorus e delay più strani, per tingere la colata di miele di altre sfumature ed evitare il rischio che il tutto diventasse nauseante. Lavorare con Dario (in arte Radio Trapani, il mio amico producer, colui che ha aperto il progetto Ableton di Storyteller e ha detto “Vai, adesso spacchiamo”) è bellissimo in questo senso: insieme manipoliamo o creiamo da zero tutti i suoni che possano corrispondere a quel mio ideale di dolcezza, di sogno, e poi li sporchiamo un po’, li graffiamo, gli diamo un po’ di mordente. Dario è bravissimo, perché capisce al volo non solo cosa risuona con me, ma anche come realizzarlo subito, e in che percentuale fare le miscele con elementi altri, contrastanti, meno “carini”, lievemente più marci e divertentissimi; è un buon balance e una bella ricerca, che non può che affinarsi, e io sento che ho carta bianca per inventare e riprodurre davvero quello che ho in testa, ampliandolo e sperimentando.
Con “Storyteller” hai avviato ufficialmente la tua carriera da solista e, per di più, sei riuscita a dare una firma italiana ad un progetto alt pop! Come nasce questo singolo e quanta Amsterdam c’è in esso?
“Storyteller“, come molte altre canzoni, è nata senza volerlo, come una sorta di jam con me stessa. Scrivo molta musica, in verità; passo più tempo a buttare giù canzoni che a studiare altro… anche durante il conservatorio scandivo le mie giornate così. Trascrivendo giri armonici inusuali di qualche brano per cui avessi una cotta, e poi seduta al piano a inventarne altrettanti. Di solito, però, scrivo musica per band (mie) specifiche, tenendo a mente a priori la strumentazione, il suono del gruppo, il resto del repertorio. “Storyteller“, invece, è nato senza famiglia.
Fin dal primo momento mi era chiaro che non sarebbe stato destinato a nessun progetto nello specifico, che come atmosfera e intenzioni non apparteneva a niente che avessi già scritto e catalogato; mi sembrava giusto, quindi, che inaugurasse qualcosa di nuovo – un nuovo repertorio, ma anche un nuovo “contenitore”: una presentazione come solista, per esempio. Ho registrato la demo di Storyteller su Logic e l’ho fatta sentire agli amici. Mi hanno detto che era bella, che mi rappresentava, che “sei proprio tu”. Allora ci ho creduto un po’ di più. Ho chiesto a Dario se voleva aiutarmi con la produzione per iniziare, per divertimento. Quindi in questo singolo c’è Amsterdam, ma c’è anche un po’ di Domodossola (che è la città di origine di Dario). Amsterdam c’è perché Storyteller è nato qui e forse era proprio qui che doveva e poteva nascere, in questo contesto di concentrazione creativa e molteplici input in cui la città riesce a calarmi. Ci sono tanti amici musicisti che stanno diventando nerd di synth, ascoltano musica assurda, contemporanea, elettronica, bellissima, folk di chissà dove, ne sanno a pacchi di teoria musicale, amano quello che fanno e non seguono le mode. Anche solo cenare insieme, consigliarci dischi a vicenda o sentirli suonare è uno spunto di riflessione e immaginazione.
Stai lavorando su tutta una serie di singoli che usciranno nei prossimi mesi e che definisci: “weird, dolci, un po’ sghembi, che luccicano”. Cosa puoi dirci di più?
Weird perchè: sono canzoni essenzialmente pop, ma hanno quasi sempre qualcosa di strano (spesso l’armonia), un elemento curioso, una deviazione, una virgola storta, una modulazione inaspettata, qualcosa che non è immediatamente decifrabile e che quindi può suonare bizzarro, anche impercettibilmente, come un retrogusto, una sensazione.
Dolci perchè: si tratta di canzoni che parlano spessissimo di sentimenti vissuti in maniera tenera o naïf e che mi danno la piena libertà di approfondire la dolcezza da un punto di vista timbrico, espressivo, semantico, poetico, di stravolgerla, abbracciarla, farla mia e raccontarla come preferisco, che sia attraverso i suoni o le parole o entrambi.
Un po’ sghembi perchè: c’è sempre qualche elemento ironico, anche minuscolo, che faccia tremare leggermente le mura dell’impianto, come giunchi nel vento, come a dire Sì, la musica è una cosa gigante e profondissima, ma è bello anche che sia tanto sincera e sfacciata da essere sghemba come noi, a tratti buffa, goffa, tosta e simpaticissima allo stesso tempo.
Che luccicano: perché la produzione sarà piena di suoni spruzzati sulle cose come glitter, manciate di arpeggiatori scintillanti, synth pazzi, dettagli di polvere di fata, piogge e tempeste di note coloratissime. Entreremo nel vivo dell’avant-cute party inaugurato da Storyteller, con la palla stroboscopica, i ballerini spettinati e tanti cocktail alla frutta.
Il prossimo singolo è già quasi pronto, e si chiama Waterbomb. Parla di corteggiamento, di orgoglio, di donne sveglie e personaggi imbranati. Potenzialmente uscirà a metà giugno, e vedrà il contributo di un batterista americano che vive ad Amsterdam da parecchi anni e che io adoro. Il terzo singolo sarà per l’estate inoltrata e sarà più popolato (di collaborazioni); già me lo immagino ancora più “loud”, una specie di inno felicissimo all’amicizia. Poi sarà giunto il momento di fare un EP!
Quali sono i tuoi progetti a lungo termine e quale, invece, il tuo sogno nel cassetto?
Continuerò a lavorare su e con tutti i progetti che ho la fortuna di condividere con quelli che poi sono i miei amici. tiigre, il solo, un nuovo duo di chitarre e voce con un chitarrista portoghese, Gonçalo Neto, dedicato a tutta una serie di canzoni originali più folk e acustiche. Vorrei trovare sempre più occasioni per esporre e presentare me e la mia musica alle orecchie e al cuore delle persone.
Al momento ho circa 40 canzoni a cui voglio un sacco di bene e che non vedo l’ora di condividere con ‘il mondo là fuori’, con il pubblico. Voglio registrare tutto quanto, in ordine e a modino, con le persone giuste e la giusta pianificazione. tiigre dovrebbe andare prossimamente in studio con Attie Bauw, un bravissimo produttore olandese con cui ci piacerebbe impostare una collaborazione duratura. Storyteller ha dato il via a un percorso di cui voglio seguire tutti i passi migliori, e sono molto determinata, perché credo moltissimo in questo progetto solista. Non voglio smettere mai di scrivere. Voglio imparare a suonare la chitarra. Sto studiando.
ll mio sogno nel cassetto è piuttosto banale: vorrei vivere solo ed esclusivamente della mia musica, fare tour, magari mondiali, aprire gli occhi sopra un palco davanti a un mare di persone e sentirle intonare le parole di una mia canzone. Ogni volta che guardo i video di concerti del genere, con il pubblico che canta e il performer che sorride con tutta la faccia e guida il coro e si guarda intorno e quasi non ci crede e potrebbe svenire da un momento all’altro per l’emozione… mi vengono i brividi e penso “che bel sogno”. Vorrei anche avere una casa grande con il parquet le finestre alte i gatti i fiori il pianoforte. Per ora non m’importa dove, basta che ci sia tantissima luce.
C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Se mi avete seguita fin qui e avete letto tutto quanto… grazie! Poter parlare di me e di ciò che mi sta a cuore in questa maniera è un grande privilegio. Fare musica e farla come più mi piace è una fortuna incredibile. Esprimersi e farlo attraverso un linguaggio artistico è una forma di testimonianza di esistenza che conferisce un senso profondissimo allo stare al mondo. Avere degli ascoltatori, dei lettori, degli interlocutori che si affezionino alle tue parole, alle tue note, ai tuoi pensieri, alla tua arte è un privilegio ancora più grande, che mette questa testimonianza in prospettiva e le dà il valore di cui ha bisogno per sopravvivere. La gratitudine è un sentimento bellissimo, forse il più bello per me. Finché proverò gratitudine e avrò la possibilità di esprimerla e di condividerla, mi reputerò salva.
Marta Arpini for Siloud
Web page: https://martarpina.wixsite.com/martaarpini/marta-arpini
Instagram: @martaarpini
Soundcloud: Marta Arpini
Bandcamp: Marta Arpini