Cantautore e musicista polistrumentista: David Zulli, è nato a Milano nel ‘74, ma vive a Roma da 18 anni. Tante le esperienze musicali che ha collezionato, tra cui il suonare in diverse formazioni e il dedicarsi a spettacoli di cabaret e intrattenimento. Nel 2018 inizia a lavorare al nuovo disco, 2Q20, con la supervisione artistica e la co-produzione di Francesco Forni, la cui è uscita è prevista per il 1° dicembre 2020.
Nome: David
Cognome: Zulli
In arte: David Zulli
Età: 46
Città: Milano , Roma
Nazionalità: Italiana
Brani pubblicati: Lo specchio della città, Di difficile ascolto (storia di una ciabatta), Ritratto, Resa, Voglio essere considerato, Col naso all’insù, Solo e nudo alla finestra, , La Danza della nudità
Album pubblicati: La danza della nudità
Periodo di attività: solista dal 2017
Genere musicale: Canzone d’autore, Cantautorato eccentrico
Piattaforme: YouTube, Spotify, Apple Music, Deezer, Amazon Music, Soundcloud (solo primo disco).

Cantautore e musicista polistrumentista, chi sei nella vita David?
Ciao, mi chiamo David (Zulli), sono nato a Milano nel ‘74, ma vivo a Roma da 18 anni. Sono libero professionista e mi guadagno da vivere come consulente informatico.
Prima di questo ho svolto parecchie e diverse altre attività, tra cui quella di educatore presso un centro di accoglienza per minori, tra il 1999 e il 2001, che considero e ricordo come molto intensa e formativa.
E poi vivo tra e nella musica praticamente da sempre; non mi ha mai (finora) dato da mangiare, mi ha fatto spendere un sacco di soldi, ma quanto le sono grato e fedele!
Qual è stato il tuo approccio con il mondo della musica?
Sono cresciuto con molta musica attorno, in casa, da bambino e ragazzo. L’ascoltavano i miei genitori. Mio padre soprattutto comprava e ascoltava molti dischi, – parliamo di vinili o musicassette ovviamente – soprattutto cantautori italiani: De André, Fortis, Ivan Graziani, Branduardi, Gaber, Jannacci, Bennato, Dalla, Vecchioni, Conte, Bertoli e molti altri ancora di quel periodo (fine anni ’70 e anni ’80). E c’erano anche tutti quei cantanti o gruppi italiani di fine anni ’60 e primi ’70.
Mio padre poi aveva una chitarra acustica che strimpellava nelle serate con amici. Così, verso i 14 anni, ho preso in mano la chitarra anche io. Poi più tardi, dai 16 anni in avanti, ho studiato chitarra classica prima e jazz/blues con Gigi Cifarelli dopo, per qualche tempo. Da lì in avanti ho più o meno sempre suonato, aggiungendo di tanto in tanto la curiosità per altri strumenti, che ho imparato a suonicchiare, spesso da autodidatta, in qualche caso prendendo qualche lezione: basso, flauto traverso, ukulele, mandolino, pianoforte. Ho provato anche a studiare violino, ma non faceva per me.
Ho sempre speso quasi tutti i pochi soldi che avevo in dischi o strumenti: una volta entrai in un negozio per comprare una muta di corde per chitarra e uscii con un flauto traverso… mannaggia a Ian Anderson. E mannaggia a me.
Come ascolti, oltre ai vari cantautori, che mi hanno indubbiamente influenzato chi più chi meno, ho ascoltato molta musica di tutti generi, ma tra gli artisti che considero per me più formativi da ragazzo, direi soprattutto De André, Fortis, Ivan Graziani, Branduardi, Gaber, Jannacci, Bruce Springsteen, i Doors, i Jethro Tull, Vasco Rossi, (fino e non oltre a Gli spari sopra) e Guccini. Ma anche i vari altri colossi, come Pink Floyd, Led Zeppelin, ecc. Senza dimenticare gli Iron Maiden e Vivaldi. Vado avanti?
Tante le esperienze musicali che hai collezionato, tra cui il suonare in diverse formazioni e il dedicarsi a spettacoli di cabaret e intrattenimento. Come hanno influenzato la tua carriera musicale?
Parliamo di ambiti differenti e individuerei tre momenti ben distinti.
Il primo, grossomodo dai 17 ai 27 anni, è stato quello delle band, con cui ho suonato la chitarra (acustica e elettrica, ritmica e più raramente solista).
Beh, era molto fico. Ero giovane, spensierato e mi divertivo.
Stare sul palco poi mi ha sempre divertito molto e mi ha consentito di esprimere con agio estetiche ed “eccentrismi” che per me sono sempre stati imprescindibili.
Poi, con il trasferimento a Roma e una situazione di carattere famigliare non proprio semplice, le priorità sono cambiate e mio malgrado stavo facendomi grandicello, per cui ho abbandonato per un po’ la musica dal vivo, le band e per un po’ di anni ho suonato solo per me stesso o in ambito “domestico” o situazioni conviviali, feste tra amici e via discorrendo.
Poi un giorno (siamo giunti al secondo momento), era il 2011 – giocavo (e gioco) a tennis e frequentavo un circolo sportivo – ho conosciuto due tennisti “mattacchioni” e con loro abbiamo formato un trio che (loro!) hanno voluto chiamare David Zulli’s Band.
Niente di troppo professionale, ma parecchie serate in locali vari a Roma: abbiamo fatto divertire e ci siamo molto divertiti.
Così ho ripreso, poi la band si è sciolta, l’amicizia è rimasta, ma sono nate per me varie nuove e stimolanti amicizie e collaborazioni, sia in ambito musicale che teatrale…
Fino a quando, nel 2017 (terzo e ultimo momento), avendo alcune mie canzoni scritte e un po’ di “cose da dire”, tendenzialmente però troppo personali per essere affidate ad altri interpreti, ho voluto provare a sperimentarmi cantore di me stesso.
E così eccomi qui, sulla soglia (quasi) dei cinquanta, con un mio primo disco del 2017, La danza della nudità, e un secondo, pronto, in uscita a dicembre.
Come dicevamo oltre ad essere un cantautore sei un polistrumentista. Saper suonare diversi strumenti è sicuramente un modo per creare sound mai ascoltati prima. In che modo classificheresti la tua musica?
Fatico molto a classificarmi in un genere, così come non amo classificare in generi molte delle cose che ascolto. In generale la classificazione non mi piace.
Indubbiamente non suono heavy metal (anche se l’ho fatto in passato) o funky. Non suono (e non amo) la trap (non è il mio linguaggio)…
Però quando leggo che Jannacci è catalogato su Spotify come artista pop, ecco, beh, insomma… mi sono spiegato?! Oppure Zappa, che genere faceva Zappa?
Ok, io non sono Zappa, sono Zulli e il paragone è impertinente, me ne rendo conto.
Ad ogni modo se proprio devo, diciamo che scrivo musica d’autore a volte un po’ particolare, eccentrica, ironica, surrealista, altre volte più “canonica”, sempre con testi in italiano, più spesso attenta a dinamiche interiori, talvolta con lo sguardo proteso verso l’esterno.
Nel 2018 inizi a lavorare al nuovo disco, 2Q20, con la supervisione artistica e la co-produzione di Francesco Forni, la cui è uscita è prevista per il 1° dicembre 2020. Come è nato questo progetto?
Era il periodo in cui proponevo live per locali il mio primo disco, La danza della nudità, quando, a giugno 2018, abbiamo scoperto – purtroppo tardi – la malattia di mia madre.
Per questo ho scelto di fermarmi con l’attività dal vivo e dedicarmi anima e corpo a lei, cosa che ho fatto fino all’ultimo.
E ho ripreso a scrivere e registrare nuovo materiale.
A un livello profondo e non tangibile, sottopelle, 2Q20 (due cu due zero – il nuovo disco), è pregno di quell’esperienza, che ha senza dubbio, nel male e nel bene, smosso tante energie.
Quando a un certo punto avevo già pronto un po’ di materiale, ho ritenuto necessario andare oltre il mio unico punto di vista.
Con il primo disco ho fatto tutto io (ad eccezione di un brano, scritto a quattro mani). L’ho scritto, suonato, interpretato…
Trovo sia potenzialmente un bel disco, ma acerbo e inesperto, quindi parte di un percorso di crescita necessario, nella mia prima fase da solista.
Ma ora mi serviva uno scatto, qualcuno che sapesse aiutarmi a smascherarmi. Ovviamente allora non avevo così lucidamente questa consapevolezza, ma sapevo che mi serviva una mano. E così ho pensato a Francesco Forni, che è anche un amico e che stimo moltissimo come artista e come persona, e gliel’ho chiesta. Ora ho un disco del quale sono molto contento.
E soprattutto, com’è stato collaborare con Francesco Forni?
È stato per me molto importante, decisivo, formativo, bello. Anche faticoso.
Esiste un’era avanti Forni e un’era dopo Forni.
Lui ha saputo intercettare, incanalare e stimolare certe energie nel pieno rispetto delle cose che stavo cercando di esprimere. Per quanto riguarda l’espressione (voce e interpretazione), ha cercato, direi riuscendoci, di abbattere molte mie maschere. Mi ha “rivoltato come un calzino” (mi serviva!), e mentre lo faceva, non avevo la percezione di quanto profondamente stesse insinuandosi, per cui è stato anche bravo a farlo con discrezione.
Oltretutto non l’ho coinvolto subito, per cui si è trovato a dover gestire aspetti che si erano già radicati.
Lui stesso scrive: “si tratta di scegliere di superare dei limiti e di rompere delle maschere dietro le quali ogni artista si rifugia. Non tutti sono disposti a farlo e anche con David non é stato facile. Questo disco è frutto di David e della sua creatività, ma anche della sua capacità di affidarsi ad un orecchio esterno.”
Qual è la storia che volevi raccontare ai tuoi ascoltatori?
Quando scrivo non penso (quasi mai) all’ascoltatore. Scrivo per me innanzitutto, e le cose che scrivo devono emozionarmi, corrispondermi, eviscerarmi e sviscerarmi.
Raggiunto questo obiettivo, mi ritengo appagato.
Poi il tempo spesso rimescola le carte, credo sia normale, e le cose scritte, dette e fatte, si (ri)valutano con occhio differente.
Va da se comunque che qualcosa viene raccontato e la risposta alla prossima domanda aggiungerà qualcosa di più…
Cosa puoi spoilerarci del nuovo album?
Questo:
Che, intanto, è un disco. Composto di brani, certo, anche diversi, certo, ma che cerca un’organicità complessiva.
Si è composto pian pianino, un pezzo dopo l’altro, come già detto anche grazie al preziosissimo apporto di Francesco (Forni).
Ci ha messo due anni e mezzo a compiersi.
Due anni e mezzo di fatiche e pianti, per ragioni personali, complicati… molto.
2Q20 indaga e sviscera (prova a farlo) una terra di mezzo, quel territorio di niente e di tutto, pieno e vuoto allo stesso tempo, che sta tra la luce e il buio, tra il giorno e la notte. E’ un disco bivalente, fatto di dualismi, e che si nutre di suggestioni e forze che stanno dall’“altra parte”, in una dimensione parallela, oscura e per certi versi pericolosa, ma vista come soluzione e spazio di libertà, intimo e personale. Sensazioni e pensieri nel momento del silenzio… e del frastuono.
E lo fa (prova a farlo) con Murakami nel taschino.
Ah, e poi – dimenticavo, ma è (sarà) evidente – è un disco pieno di “quando” e di “come”, mentre i “se” sono impliciti.
Cosa ti aspetti dal futuro?
Ehhh… ho 46 anni, ma ancora non so cosa vorrei fare da grande.
E poi non voglio dirti proprio tutto, ci sono aspetti di me – desideri, paure, insicurezze – che preferisco tenermi stretti. Ti posso dire che sono piuttosto disilluso e che il panorama musicale attuale non mi corrisponde granché e io non corrispondo a lui. Ragiono di nicchie. E poi c’è il COVID, che tanta incertezza sul presente e sul futuro sta “regalando”.
Forse, parafrasando Francesco Tricarico, posso dirti che vorrei una vita tranquilla. Forse no?!
C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Non abbandonate i rifiuti (ingombranti e non) per strada.
Non scavallate le file.
Non superate in corsia di emergenza.
Non siate prevaricanti e prepotenti.
Siate curiosi.
Leggete libri.
Ascoltate i dischi (i dischi!).
Appassionatevi.
Alzate lo sguardo al cielo.
Danzate nudi (letteralmente nudi) con le braccia alzate quanto più spesso potete, meglio se in pubblico, ma non come atto d’esibizione.
Fate i bravi.
David Zulli for Siloud
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Credits: Chiara Giorgi