InTheMusic: Lyre, interview

Dietro Lyre c’è Serena e la sua ricerca artistica e ricerca in generale. Il suo progetto musicale nasce dopo anni di esperienza nel mondo del teatro, ma in realtà per lei la musica c’è sempre stata.
Dal 22 gennaio è disponibile su tutti i digital stores il suo primo EP “Queer Beauties”, composto da quattro tracce unite da un filo conduttore comune.

Nome: Serena Maria
Cognome: Brindisi
In arte: Lyre
Età: 36
Città: Milano
Nazionalità: Italiana
Brani pubblicati: Send his Love to Me, Broken Flowers
Album pubblicati: Queer Beauties (2021)
Periodo di attività: dal 2012
Genere musicale: Elettronica dark
Piattaforme: Youtube, Spotify,Vimeo, Apple Music, Deezer, Amazon Music,Beatport

Chi c’è dietro Lyre?

C’è Serena e la sua ricerca artistica e ricerca in generale. Sono nata a Milano nel 1984 e dai miei 18 anni ho fatto l’attrice di teatro per molti anni studiando anche in Paolo Grassi, senza mai fermarmi, fino a quando un giorno ho sentito la necessità di una pausa di respiro e riflessione che mi ha portata a scegliere di trasferirmi nel Regno Unito. Qui sono rimasta per 6 anni per dedicarmi completamente alla mia passione per la musica, sperimentando molto, studiando e facendo incontri molto interessanti. Immersa in una quiete stupenda, in una cultura da scoprire, nella solitudine della condizione di straniera, ho messo in questione tutte le certezze del mio mondo precedente e pian piano, con passione e pazienza, da tutto questo è nato il progetto Lyre.

Com’è nato il tuo nome d’arte?

È stato Davey Ray Moore, il mio supervisor all’università di Bath, musicista e produttore incredibile che stimo tantissimo (Cousteaux, Cristina Donà, Afterhours) a consigliarmelo un giorno, a donarmelo in un certo senso. Mi è piaciuto molto perché amo proprio il contrasto che vive in questa parola. Significa “lira” ma ha lo stesso suono di “liar” (bugiarda). Porta insieme uno dei simboli più alti di purezza, l’essenza del songwriting stesso insieme al suo opposto, cioè la menzogna. Adoro questa ambiguità.

Il tuo progetto musicale nasce dopo anni di esperienza nel mondo del teatro, ma quando ti sei avvicinata alla musica?

La musica c’è sempre stata. Ho iniziato da piccolissima, con le percussioni, per poi passare al piano classico, intermezzato da un anno di violoncello. Ho studiato sia da privatista che in Civica a Milano. Facendo anche delle scuole medie stupende (La Vivaio) ad indirizzo musicale. Quando ho finito il liceo avevo davanti a me tre strade interessanti da seguire. Essendo allora ancora più ossessiva di adesso, non sarei riuscita a seguirle seriamente tutte e tre. Dovevo scegliere se puntare sul teatro, sulla musica o sull’accademia di belle arti e alla fine ho scelto il teatro, ma non ho mai smesso di suonare, mentre di disegnare purtroppo sì.

In realtà, avrei voluto soprattutto cantare, ma la mia voce era molto bloccata e pensavo di non essere all’altezza; ho dovuto fare molta strada e trovare la giusta pace interiore e la giusta vocai coach, per permettere alla mia voce incastrata da vari problemi profondi e psicosomatici di uscire. Mi ricordo ancora la commozione incredibile che ho provato, la prima volta che l’ho sentita ‘libera’. È stata la motivazione per continuare ad andare avanti. Era La parte più fragile e vera di me. Trascurata per anni.

Com’è nata l’idea di mettere su il tuo percorso musicale?

Quando, ascoltando artiste come PJ Harvey o Beth Gibbons, ho sentito che il luogo in cui mi sentivo meglio in assoluto era il mondo creato dai loro brani e dalle loro voci e, in un certo senso, le ho ‘invidiate’ perché erano riuscite a creare il loro luogo centrale, con l’atmosfera giusta in cui immergersi e poter fare uscire la propria voce più intima.

Così ho sentito la necessità di doverne creare uno mio, in cui poter sostare all’infinito, immergermi e attendere, sperimentare, scoprire, portare anche le esperienze della vita e vederle trasformarsi ed esprimersi in un linguaggio nuovo, che si creava pian piano con molto lavoro, molta pazienza e molte attese.

Quali sono le collaborazioni che nella tua carriera hanno maggiormente influenzato il tuo sound?

Ho ricercato per molto tempo un suono che potesse esprimere appieno il mio mondo, un suono appunto da cui partire a costruire tutto. E questa ricerca mi ha portata a viaggiare spesso tra Glasgow ed Edimburgo e Perth, inizialmente, dove ho collaborato con artisti interessantissimi, tra i quali i più importanti è sono stati Scott McLean e Fred Dimitrov (che ha scritto un brano dell’Ep). Loro sono stati compagni preziosissimi, con Scott abbiamo anche registrato 5 brani, e il viaggio fatto insieme è stato stupendo, ma non ero ancora convinta che quel suono fosse giusto per me e ho continuato da sola a lavorare sulle mie produzioni e a mandare le mie tracce a produttori che sentissi più affini al mondo sonoro che stava prendendo forma.

Allora sono finita a Bristol per lavorare con Dan Brown (Massive Attack, Ilya, Karine Park), che aveva accettato di collaborare con me su una traccia che si chiama “Ruins”, e successivamente ha voluto mixare anche le mie produzioni delle altre. Dan ha fatto un lavoro bellissimo, creando atmosfere molto dark, vintage, alla Portishead. Ci siamo immersi giorni interi nel lavoro nel suo bellissimo studio e mi ha ospitata a casa sua per non interrompere il workflow. Alla fine delle nostre sessioni avevo un Ep pronto. Ero felice che avesse ritenuto le mie produzioni interessanti, ma mentre lavoravamo, lui continuava a dirmi che avrei dovuto trovare anche un’altra persona, qualcuno più estremo da un punto di vista di ricerca nella musica elettronica, che secondo lui ero vicinissima , ma che per rendere davvero giustizia ai miei brani e alla mia personalità artistica avrei dovuto andare ancora un po’ oltre. Mi disse che con questo Ep pronto e di valore, avrei avuto tutto ciò che serve per fare l’ultimo step e così è stato infatti.

Quando sono tornata a Milano e ho incontrato Giuliano Pascoe, è stato fantastico perché, partendo proprio dai mix di Dan Brown, pur stravolgendo a primo impatto, ogni mia traccia, è come se in realtà avesse svelato a poco a poco la natura più vera del progetto. Ha tolto il superfluo, estremizzando i contrasti con un sound design potente e moderno, mi ha fatto conoscere Arca di cui mi sono innamorata follemente, mi ha fatta avvicinare a un sound in cui finalmente mi riconosco totalmente. Un sound dove le atmosfere sono tutto, la manipolazione del suono è la protagonista e i contrasti fondamentali. Ero partita da un suono tra i Portishead e il Postrock ad Edimburgo con Scott, per poi passare a atmosfere più Radiohead con Fred Dimitrov, indagare tutte le atmosfere vintage trip pop con Dan Brown e finire tramite ascolti ossessivi di FKA Twigs, Bjork e Arca a trovare il mio mondo sonoro più autentico a Milano con Giuiano Pascoe. È stata la prima volta in cui mi sono sentita abbastanza sicura di voler far ascoltare i miei lavori al pubblico, in cui non ho avuto più le incertezze che avevo prima. Inoltre, ho iniziato a studiare molto più a fondo la produzione elettronica e la manipolazione dei suoni e più vado avanti e più mi appassiono. Ho prodotto per la prima volta interamente una traccia da sola di cui posso dire di esserne fiera e che pubblicherò sicuramente in futuro. Il mio obiettivo per il prossimo Ep prevede proprio un lavoro di co-produzione con Giuliano, ora che mi sento più preparata e totalmente vicina al suo mondo sonoro.

Dal 22 gennaio è disponibile su tutti i digital stores il tuo primo EP. Cosa puoi dirci su questo progetto?

Il mio primo Ep che si chiama “Queer Beauties” contiene quattro tracce che avevamo sentito insieme io e Giuliano Pascoe dal materiale che gli avevo proposto. Sono brani che ho scritto anni fa appunto ad Edimburgo che sono stati totalmente riarrangiati con Giuliano. Spiego un attimo il titolo per fare chiarezza. Le Queer Beauties per me sono e sono state delle rivelazioni molto importanti, che accadono nel picco massimo di un innamoramento, nella tensione più profonda del desiderio o anche semplicemente nel tempo sospeso di uno sguardo di curiosità o di attrazione.

Sono stata sempre estremamente attratta dalle apparenti dissonanze e dai contrasti nascosti nei corpi, dal doppio, maschile e femminile che vive in tutti noi e dal modo in cui copriamo e cerchiamo di nascondere le nostre ferite creando corazze imponenti, affascinanti e a volte estremamente eleganti. Ma nel momento in cui qualcosa fa breccia nell’armatura, come uno sguardo, o uno scatto, allora si rivela in parte quella che il fotografo Mustafa Sabbagh, da cui ho tratto molta ispirazione per il video del singolo “Broken Flowers”, definisce “Hurting beauty” la bellezza che ferisce. In quel momento si intravede una verità,una nudità, un vissuto, una fragilità disarmanti. Avviene una sorta di resa, qualcosa cede, cade, svela, perché è come se il suo sguardo riuscisse a fare breccia e a creare una crepa in questi corpi corazzati. Nella mia memoria, proprio come divinità antiche, queste bellezze svelate, violente e ambigue, col tempo si tramutano in specchi, in cui ritrovare la propria immagine riflessa da mille angolature. In cui ri-conoscersi ogni giorno.

L’aggettivo “queer”, inoltre, è usato sia per il suo significato di “strambo, dissonante” che provocatoriamente descrive i corpi e le anime di cui ho parlato e che mi attirano di più, ma anche questi brani, il loro suono e la loro struttura, che ovviamente per il suo riferirsi a bellezze del mondo “Queer” essendo il mondo di cui io faccio parte, da sempre, che ho abitato e vissuto, e in cui ho imparato ad esprimere ogni parte di me e a gioire delle mille sfaccettature che possono emergere nel momento in cui ci si libera delle gabbie interiori che ci vogliono sempre “ definire” e che portiamo dentro fin dall’infanzia.

Qual è il filo conduttore tra tutti i brani?

Il filo conduttore, appunto, l’“evento” usando un termine teatrale, è in un certo senso questa ‘resa’, il momento in cui accade qualcosa che permette ai personaggi descritti nei brani di far cadere un pezzo di armatura e rivelare insieme alla loro fragilità la loro bellezza più profonda. Queste “Queer Beauties”. In Embers la voce narrante è come una voce adolescente o di una donna che ritorna adolescente, e che, incantata dagli occhi della donna che desidera, cede a ogni gabbia interiore, si arrende e rende completamente per seguire ciò che deve seguire, in Mirrors, la voce narrante si arrende all’impossibilità di un amore, alla lontananza imposta dalla’amata, alla sua solitudine. Dorothy è ispirata a una signora anziana che veniva ogni giorno al caffè in cui ho lavorato ad Edimburgo, per rifugiarsi nell’alcol e nella compagnia di noi cuochi e camerieri, in particolare di Alex un ragazzo con cui cantava per ore dopo aver bevuto un pò di prosecchi, spesso brani tratti da The sound of music. Al suo compleanno degli 85 abbiamo organizzato una piccola festa e lei si è messa una giacca incredibile, doratapieéna di pjettes. Era bellissima. Ho sempre pensato che potesse essere in realtà Marylin Monroe, che avendo finto il suicidio si fosse rifugiata ad Edimburgo. E glielo dicevo sempre e scherzavamo molto su questo. L’immagine di lei elegantissima, con un bicchiere di prosecco in mano, che canta all’infinito con Alex , presissima, totalmente inconsapevole del contesto, mi ha colpita molto e nel suo cantare, c’era sempre una sensazione di resa, il suo sguardo si perdeva in mondi lontani e diventava magnetica. Il suo canto, il suo rendersi è l’evento di questo brano.

Nell’ultimo, Broken Flowers, è come se la voce narrante inseguisse una divinità bellissima e spietata, che la tiene sempre in pugno, la seduce e scappa sempre e non concede mai la grazia. Si arrende a questa sorta di incantesimo, a questo destino di caccia impossibile dettata da un desiderio profondo che comporterà cadute  necessarie. In realtà però questa sorta di ricerca infinita mai soddisfatta e questa resa infinita è ciò che le permette di avvicinarsi sempre di più alla sua parte più pura , è il fondamento della ricerca artistica più autentica. Uno stato costante di innamoramento.

Tra tutti, ne hai uno a cui ti senti particolarmente legata?

Dipende dai periodi. Per molto tempo Dorothy è stato il brano emotivamente più toccante per me. La melodia folle che ho scritto una mattina

spontaneamente tutta d’un fiato (dico folle perché mi costringe a dove stare sempre nel registro più alto in cui mi sento più fragile) mi mette proprio in ginocchio, mi espone molto. È un brano che richiede una presenza totale a livello emotivo. Il più delicato. Ne amo tantissimo inoltre la parte dei violini scritta da Giuliano e suonata da Martin Nicastro. Però dipende davvero dai periodi e dagli stati d’animo. A volte sentivo molto più vicini Embers e Broken Flowers. Di Mirrors apprezzo tantissimo la scrittura ritmica in 7/4 e le armonie che ha creato Fred Dimitrov e che abbiamo sviluppato con Giuliano, è un brano che sento magari un po’ meno di pancia, ma che adoro musicalmente e che ritmicamente mi fa proprio sognare.

Cos’hai in programma per il futuro?

Sicuramente concentrarmi molto sul live, continuare a scrivere e a produrre i nuovi brani e ritornare anche a lavorare sulla recitazione, con calma gentilezza e attenzione.

C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?

Io vorrei soprattutto ringraziarli per l’attenzione che mi hanno dedicato ora, attenzione che non è mai da dare per scontato, e spero ovviamente che dal lavoro che porto avanti possa arrivargli qualcosa di prezioso. E vorrei, come ultima cosa, augurare a tutti di abitare con gioia e presenza i vuoti, i respiri e le attese. È un augurio che può sembrare assurdo e new age, ma che per me sta diventando estremamente importante in un momento storico come il nostro, in cui si sta uccidendo a livello mediatico e social il fondamento della ricerca più profonda: appunto l’abitare il vuoto, il saper respirare nelle attese senza la forzatura del risultato o, ancora peggio, del prodotto da mostrare a tutti costi.

Lyre for Siloud

Instagram: @_.lyre._
Facebook: @lyrevision
YouTube: Lyre

Credits: Morgana Grancia, Conza Press

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