InTheMusic: Flame Parade, interview

Flame Parade sono un gruppo di ragazzi sulla trentina d’anni. La registrazione del primo album è stato il momento in cui hanno dato un’identità precisa al progetto, capendo anche i loro limiti e dove potevano migliorare. Poche settimane fa è uscito “Echoes”, un EP nel quale hanno riarrangiato tre brani del precedente disco e lanciato l’inedito “River”.

Band: Flame Parade
Componenti: Letizia Bonchi, Marco Zampoli, Mattia Calosci, Niccolò Failli, Francesco Agozzino
Età: 31, 38, 30, 31, 28
Città: Firenze
Nazionalità: Italiana
Brani pubblicati: A New Home, Kangaroo, Cosmic Gathering, Thunder Clap, River
Album pubblicati: As Above So Below, A New Home, Cosmic Gathering; Echoes
Periodo di attività: dal 2012
Genere musicale: Indie, Folk
Piattaforme: Spotify, You Tube, Apple Music, Amazon Music, Vevo

Chi c’è dietro i Flame Parade?

Iniziamo da me: Letizia, voce, synth e violino. Ho 31 anni e sono un ibrido strano tra un’insegnante e una musicista. Alcuni di noi hanno lavori che comunque gravitano intorno all’ambiente musicale: Mattia lavora nella nostra etichetta, Materiali Sonori, Niccolò gestisce un negozio di musica che sta diventando una realtà abbastanza importante nel territorio. Abitiamo in Valdarno, un triangolo di pianura compreso tra Siena, Firenze e Arezzo e siamo più o meno millenials, con tutto il disagio che comporta. 

Tutto ha avuto inizio nel 2012, in un antico casale toscano. Cosa vi ha fatto incontrare e cosa vi ha spinto ad intraprendere un percorso artistico insieme?

Io, Marco e Mattia ci siamo conosciuti nel 2012. Avevamo in comune la passione per la musica indie-folk, anche se venivamo da background musicali molto diversi. Marco dal post-rock, io dalla world music e Matti dal punk. Il famoso casolare toscano, Borronacci, ha dato il via a tutto: lì ci ritrovavamo con i nostri strumenti e, quasi per gioco, sono nati i primi pezzi. Poi è arrivato Niccolò, appena rientrato da Los Angeles e la parata ha iniziato a prendere forma. Francesco si è aggiunto di recente: era l’elemento mancante di brio e creatività che cercavamo da tanto. 

Immaginiamo che tra le prime cose, ci sia stata la necessità di scegliere un nome d’arte. Come siete arrivati a “Flame Parade”?

Uno ha questa idea romantica del casolare dove abbiamo iniziato a suonare, no? Bosco, fiume, campagna. E in realtà lo era davvero, molto romantico. Però era anche freddissimo d’inverno. C’era uno di quei caminetti giganteschi, vecchio stile, dove, quando non eravamo impegnati in grigliate goliardiche e alcoliche, ci mettevamo a suonare, per stare il più possibile al caldo. Da qui “flame”. Anche il concetto di “parata” nasce nello stesso posto: il casolare era diventato un luogo di ritrovo per tutti: registi, altri musicisti. Era molto bello e ci piacque questo senso di comunione e comunità, un’idea che anche adesso cerchiamo di veicolare con la nostra musica.

Quali sono i generi che più ascoltate e a quali artisti vi ispirate?

Abbiamo gruppi di riferimento che, credo, ascoltiamo tutti: Arcade Fire per primi, ma anche Fleet Foxes, Foxygen, Dr. Dog, per esempio. Diciamo che i nostri gusti musicali sono piuttosto allineati. Le radici, però, sono lì: nella musica folk anni ‘60/’70, ma anche nel soul e nel classico rock ‘n’ roll.

Abbiamo parlato della nascita del vostro progetto, ma ancora non abbiamo conosciuto il vostro passato. Quali sono stati i momenti più importanti della vostra storia artistica fino ad oggi?

Dunque, parlo per me, ma spero di riportare anche il pensiero degli altri. Per quanto faticosa ed imperfetta, la registrazione del nostro primo album “A New Home” è stato sicuramente un momento di crescita incredibile. Alla produzione ha collaborato con noi Alberto Mariotti (aka King of the Opera, ai tempi Samuel Katarro). È stato il momento in cui abbiamo dato un’identità precisa al progetto, capendo anche i nostri limiti e dove potevamo migliorare, cosa che (credo, spero) si percepisce nel nostro secondo lavoro “Cosmic Gathering”. Poi sicuramente tra i momenti più emozionanti c’è stato il Mengo Festival nel 2019 e il concerto di presentazione del secondo album al Buh! di Firenze, Febbraio 2020: sold out, un sacco di gente ammassata, amici, risate…

È stato proprio in quell’antico casale toscano che hanno avuto inizio le vostre sperimentazioni e che la vostra attitudine folk si è affinata, avendo come risultato un sound ricercato e contemporaneo. Più nel dettaglio, cosa pensate vi differenzi da altre band italiane? 

Come dicevo prima il concetto ampio di “parata” è quello a cui siamo più legati. L’idea che la nostra musica possa accomunare, impastare gente diversa, accogliere e legare realtà lontane. Questo, aldilà della facile retorica un po’ da Baci Perugina in cui si può cadere, è quello che cerchiamo di fare anche come band: ci capita spessissimo di collaborare con altre realtà e altri musicisti, cerchiamo sempre di “fare rete” ed è questo che a volte, in un ambiente competitivo come quello musicale, è un po’ la cosa che manca. Nelle nostre produzioni questa tematica traspare, credo. Anche nell’amalgama di suoni spesso diversi e all’apparenza lontani ricerchiamo un’unità di fondo, un universo tematico che accumuni i nostri individuali modi di fare musica. 

Quali sono le vostre uscite più recenti e come avete lavorato ad esse?

Poche settimane fa è uscito “Echoes” un EP nel quale abbiamo riarrangiato tre brani del precedente disco e lanciato l’inedito “River”. È un lavoro molto spontaneo dove ci siamo divertiti a giocare con pezzi che ormai conoscevamo nei dettagli. Li abbiamo smontati, abbiamo cercato un’atmosfera intima e diretta. Anche le idee più bizzarre (“Dai, registriamo dieci tracce di voce”!) hanno trovato un loro spazio, una loro attuazione. È un lavoro rilassato, calmo.

Parliamo ora di evoluzione: come si è evoluta la vostra musica negli anni e come pensate continuerà ad evolversi? 

Rispetto a quando abbiamo iniziato siamo più maturi, non solo musicalmente. “A New Home” è un album ancora un po’ indeciso sulla strada da percorrere, soprattutto a livello di sonorità: si sentono molto le influenze del folk più classico, non ci sono “rischi” o scelte azzardate. Adesso siamo più consapevoli di cosa ci piace e ci rispecchia: questa sicurezza, paradossalmente, ci permette anche di sperimentare con più libertà, senza allontanarci troppo da quella che comunque rimane la nostra anima folkeggiante. Già nel secondo disco, “Cosmic Gathering”, ci siamo avvicinati a sonorità più indie rock, più elettriche e un po’ meno acustiche. Adesso, dopo aver dilatato e alleggerito le atmosfere in “Echoes”, stiamo giocando con suoni e arrangiamenti che richiamano un po’ un nostalgico soul anni ‘70, con più groove e linee ritmiche molto decise. Credo che continueremo in questa direzione, ricercando sempre un equilibrio creativo tra le varie influenze. 

Quali sono i vostri progetti per il futuro?

Stiamo lavorando ai pezzi nuovi. Di più non posso dire perché nella composizione di roba nuova si sa sempre da dove si inizia, ma non si sa dove si finirà. E poi vogliamo suonare, suonare, suonare. La dimensione dei live è quella che poi ci dà la carica in studio.

C’è qualcosa che vorreste dire ai nostri lettori?

Se mai deciderete di usare un casolare dell’800 come sala prove, assicuratevi che sia provvisto di un impianto di riscaldamento! 

Flame Parade for Siloud

Instagram: @flame.parade
Facebook@flameparade
YouTubeFlame Parade
Multilinkhttps://orcd.co/echoes  

Credits: Unomundo Agency, Materiali Sonori, EL-SOP Recording Studio, L’Eretico Booking & Management, Marco Zampoli, Mattia Calosci, Letizia Bonchi, Niccolò Failli, Francesco Agozzino

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