Francesco Santo, aka Santo, nasce a Pavia nell’aprile del 2000. Cresce a Varese, dove nel 2012 si approccia allo studio del pianoforte, avvicinandosi a sonorità jazz e blues ed esibendosi in piccoli eventi unicamente come musicista. Dal 2016 continua da solo il proprio percorso musicale e inizia a scrivere, per accompagnare le composizioni al pianoforte. I suoi brani hanno una caratteristica comune: una scrittura forte che riesce a creare un legame diretto con l’ascoltatore. Dal 7 maggio è disponibile il suo nuovo singolo, “Para”, per VA.BU. Entertainment, con cui hai deciso di superare un tuo “limite”.
Nome: Francesco
Cognome: Santo
In arte: Santo
Età: 21
Città: Bologna
Nazionalità: Italia
Brani pubblicati: Para
Periodo di attività: dal 2020
Genere musicale: Rap
Piattaforme: YouTube, Spotify, Apple Music, Deezer, Amazon Music, ecc.

Classe 2000, nato a Pavia e cresciuto a Varese. Chi è Francesco Santo?
Sono Francesco Santo, ho ventuno anni e sono cresciuto a Varese. Ho frequentato il lico scientifico G. Ferraris, opzione scienze applicate, nonostante non sia una cima nelle materie informatiche.
Dai dodici ai sedici anni ho studiato pianoforte, in contemporanea a un corso di tre anni di armonia e composizione, che mi ha aiutato a comprendere la musica in tutti i suoi lati e ad avvicinarmi a generi diversi dalle solite ballate americane che ascoltavo in quel periodo.
Ho sempre praticato atletica, sin dalla seconda media, e da ragazzino sognavo un futuro nel mondo dello sport, tant’è vero che intorno ai sedici anni lasciai definitivamente gli studi musicali per dedicarmi alla corsa, oltre che per i costi troppo alti delle lezioni di piano. La scelta non fu delle migliori, visto che da lì a qualche anno, a seguito di numerosi infortuni, dovetti mollare ogni prospettiva di vita legata al mondo dell’atletica.
Intorno ai sedici anni mi sono avvicinato al mondo della scrittura, in contemporanea allo studio di chitarra e produzione musicale, che ho perseguito in autonomia.
All’età di diciotto anni ho cominciato a lavorare per una nota azienda di food delivery, mestiere che compio tutt’ora. Ho sempre tenuto alla mia autonomia e indipendenza, soprattutto a causa di una situazione familiare delicata che mi ha invitato a cambiare città non appena fosse stato possibile.
Finito il liceo mi sono trasferito a Bologna, per perseguire gli studi in fisica, e attualmente sono al secondo anno. La scelta della città è stata piuttosto casuale, ma l’ambiente bolognese mi ha stimolato e ha risvegliato il lato creativo di me, che negli anni precedenti avevo accantonato, o meglio, che avevo nascosto. A Varese non ho mai pubblicato i miei lavori, spaventato da giudizi e critiche ho sempre preferito scrivere e suonare per me. Questo mi ha permesso di conoscermi a fondo e di crearmi uno stile che non fosse influenzato dai pensieri degli altri.
Il tempo concesso dalla pandemia mi ha poi permesso di conoscere meglio me stesso e migliorare la qualità dei miei prodotti, così durante il mese di marzo 2020, ho prodotto il mio primo singolo: “Rouen”. Hanno seguito “Asfalto” e “VA”, oltre che tanti progetti caricati su piattaforme come SoundCloud o YouTube.
Prima di dedicarti alla scrittura, hai avuto una fase da musicista. Qual è stata la tua prima volta con la musica?
In famiglia siamo sempre stati un po’ tutti musicisti: il mio bisnonno era pianista e suonava la fisarmonica, mia nonna e mia madre studiarono piano per tanti anni, mio padre suonava il clarinetto nella banda e mia sorella ha studiato canto e chitarra.
La prima volta che ho toccato un pianoforte avevo sette, forse otto anni, a casa dei miei nonni. Volevo assolutamente replicare le melodie che suonava mia nonna. Dopo intere giornate passate a disturbare il vicinato, mi è stata regalata una tastiera tutta mia e la possibilità di frequentare dei corsi in una scuola di musica moderna.
Ho cominciato con gli studi classici per poi avvicinarmi a sonorità jazz, blues e che potessero liberare una parte più creativa di me, scomoda tra le rigide battute della musica classica.
Solo nel 2016 inizi a scrivere e impari a suonare anche la chitarra. Come si è evoluto il tuo approccio al mondo della produzione musicale?
Da ragazzino non sapevo esistessero programmi che permettessero ai musicisti di suonare e creare beat con semplicità, quindi le mie produzioni erano un’accozzaglia di registrazioni sovrapposte le une alle altre in cui suonavo gli strumenti che avevo: chitarra, pianoforte, basso, armonica, tamburelli.
Il mio primo lavoro prodotto al computer è stato proprio divertente. Era il periodo in cui spopolava la trap, e allora cercai di dimostrare ai miei amici che non era uno stile musicale troppo difficile da realizzare. In una giornata produssi beat e testo, palesemente demenziale e volto a esasperare la figura del “trapper”.
Maneggiando lo stesso programma di produzione, ho imparato ad essere il mio direttore d’orchestra, riuscendo a rendere realtà tutte le idee che mi passavano per la testa.
Oggi ho più consapevolezza di quello che faccio, ma meno tempo di farlo, quindi solitamente mi occupo della parte armonica dei miei brani, e lascio che mixing e mastering lo facciano persone appassionate e che lo fanno con piacere.
I tuoi brani hanno una caratteristica comune: una scrittura forte che riesce a creare un legame diretto con l’ascoltatore. Sapresti dirci qual è l’ispirazione per i tuoi testi?
Io parlo semplice. Non uso paroloni, non voglio pormi a un livello più alto di chi mi ascolta. Discuto di concetti comuni che ognuno di noi vive con sè stesso, con un linguaggio semplice e comprensibile.
Quando scrivo, significa che sento, o che NON sento, qualcosa di particolare, e la stesura delle parole, la ricerca di simmetrie, equilibri e dinamicità nei testi, mi permette di sfogare tutte le tensioni che accumulo durante la giornata.
Solitamente amo lavorare per immagini, dare un concetto chiaro e associarlo ad un immagine che possa renderlo tangibile per chi mi ascolta.
Il pubblico vuole sentirsi protagonista del racconto. Parlando del vuoto che la maggior parte di noi sente dentro, cerco di farmi amico l’uditore, e di fargli toccare il fondo su cui cammino quotidianamente, per poi riportarlo su con strumentali allegre e ritmate.
Il tuo è un sound pulito e frutto di un riuscitissimo mix di diverse musicalità. A chi ti ispiri e come etichetteresti la tua musica?
Non ho mai preso ispirazione da nessuno in particolare. Certo, è inevitabile alle volte suonare simili a qualcuno: mi hanno paragonato tanto a Fulminacci, Frah Quintale, Willie Peyote o addirittura Salmo, ma non sono mai stato un ascoltatore fanatico di nessuno di loro. Credo che io abbia il mio stile, che è difficilmente etichettabile in un genere. Amo spaziare con la voce (dal canto, al parlato, al rap) e con la musica (mixando suoni elettronici a strumenti classici come pianoforti o chitarre).
Il mio obiettivo durante la scrittura non è replicare qualcosa di già fatto o sentito, seguendo schemi precisi che portino a un prodotto definito. Io penso solo a quello che voglio trasmettere. Se per trasmetterti qualcosa sento giusto dover rompere gli schemi ridondanti della musica di oggi, allora sarò felice di romperli e portarti un prodotto diverso, anche a rischio di non piacere.
Dal 7 maggio è disponibile il tuo nuovo singolo, “Para”, per VA.BU. Entertainment, con cui hai deciso di superare un tuo “limite”. Com’è stato metter su il pezzo?
Il limite di cui parli è la produzione elettronica. L’unico strumento che non ho mai studiato, è la batteria, quindi ho una grande carenza riguardo ai drum e a come posizionarli durante la traccia. Per non parlare dei miei strumenti, che sono tutt’altro che adatti alla realizzazione di prodotti di alta qualità. Con “Para”, consapevole delle grandi capacità del mio compagno di avventura WaxLife, ho voluto liberarmi dalle catene dell’autoproduzione ed affidarmi a chi conosce questo mondo meglio di me. Con lui mi sono occupato delle armonie, del basso, della struttura e ho suonato il piano che suona prima del ritornello. Dopo aver scritto il testo, e registrato, lui ha compiuto la magia, restituendomi un prodotto di valido e di qualità.
Chi ti ha aiutato nella produzione del singolo?
WaxLife, dj e produttore conosciuto ed apprezzato su tutto il suolo nazionale. Sono stato davvero onorato di aver ricevuto una mano da lui, perché oltre che a credere nella musica vera, come me, quella che prescinde dal denaro e che ha come solo obiettivo fare emozionare, possiede anche grandi doti e tanta esperienza.
Ovviamente, ad oggi, il denaro serve per produrre e fare ascoltare la propria musica, ma credo che debba limitarsi ad essere un mezzo, non un fine.
Quale sentimento volevi trasmettere ai tuoi ascoltatori e perché?
Spaesatezza, paranoia, ma anche quella che mi diverto a chiamare “fotta”, uno stato di esaltazione e euforia che rendono il pezzo ballabile e coinvolgente.
Amo spesso contrapporre testi riflessivi, che ragionino su sentimenti definiti dalla società come “negativi”, a basi che rendano la canzone più allegra e melodica, così che, chi non vuole concentrarsi sul significato del testo, può comunque ricevere sensazioni positive, che lo invitino a risentire il brano e magari cogliere degli aspetti che non aveva notato al primo ascolto.
Cos’hai in cantiere per il futuro?
Ho ben più di un cantiere sulle note del telefono. Ci sono settimane in cui scrivo giorno e notte, le idee mi sovrastano; altri mesi in cui non scrivo nemmeno per sbaglio. Non è un processo che tendo a forzare, ma nemmeno che blocco.
Ad ogni modo, se il futuro me lo permetterà, sarò felice di farvi ascoltare qualcosa.
C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Siate felici, vi voglio bene.
Santo
Instagram: @santodice
YouTube: Santo
Credits: Federico Cardu, Irene Cimò, PressaCom