Tobjah è la scrittura ebraica di Tobia, che significa letteralmente “Dio è buono”. Negli ultimi dodici anni ha lavorato con la musica facendo concerti, organizzando eventi, registrando, pubblicando e producendo dischi. “La via di un pellegrino” è il titolo del suo nuovo album. Per sviluppare questo album voleva capire i suoi limiti per imparare qualcosa di nuovo sulla pelle e poi potersi nuovamente dedicare ad altri progetti, lavorando con altre persone, che è l’aspetto della musica che ritiene più importante: la collaborazione.
Nome: Tobia Cognome: Poltronieri In arte: Tobjah Età: 34 Città: Verona, Nuoro Nazionalità: Italiana Brani pubblicati: Non so dove andrò, Nuova stagione Album pubblicati: Casa, finalmente, Armonia creatrice, La via di un pellegrino Periodo di attività: dal 2006 Genere musicale: Dub, Folk Piattaforme: Bandcamp

Chi è Tobjah nella vita di tutti i giorni?
Negli ultimi dodici anni ho lavorato con la musica facendo concerti, organizzando eventi, registrando, pubblicando e producendo dischi per i miei progetti (in primis C+C=Maxigross) e per altri. Con l’inizio della pandemia per un anno mi sono reinventato lavorando come corriere in bici per la ditta di mio cugino, poi ho terminato quell’esperienza lavorativa dato che nel mentre ho avviato una casa di produzione / studio di registrazione chiamato Studio Tega (con il produttore e co-fondatore dei C+C=Maxigross, Duck Chagall) e ricominciato a fare concerti e lavorare nella musica.
Perché Tobia è diventato Tobjah?
Tobjah è la scrittura ebraica di Tobia, che significa letteralmente “Dio è buono”. Mi piaceva evidenziare la natura spirituale del nome che i miei genitori hanno scelto di donarmi.
Sono dieci anni che sei parte della scena musicale italiana. Tornando indietro, cosa ti ha avvicinato alla musica e come si è evoluto il tuo percorso negli anni?
Se risalgo ai primi ricordi musicali vedo limpidamente mia madre che prima di addormentarmi mi leggeva sul bordo del letto i testi dei Beatles (nel bellissimo libro pieno di illustrazioni psichedeliche “Il libro delle canzoni dei Beatles”, della Mondadori) e la chitarra acustica di mio padre e che desideravo ardentemente imparare a suonare. A partire da quegli anni ogni nuova scoperta illuminava un altro piccolo o gigante angolo della galassia che mi invogliava a proseguire la ricerca. È così ancora oggi, per tutte le Arti.
Quali sono i generi e gli artisti che ispirano le tue produzioni?
Ascolto e ricerco nuovi stimoli quotidianamente da quando sono ragazzino, quindi è più corretto dirti che cosa sto ascoltando in questi giorni: “Famous Negro Spirituals And Gospel Songs” di Sister Rosetta Tharpe e “Mi ero scordato di me” di Franco Fanigliulo. Se ti devo però citare un’artista che ha avuto un notevole impatto in me da quando l’ho scoperta, e questa influenza continua a germogliare e a stimolarmi, è senz’altro Maria Lai.
La tua musica nasce tra la Sardegna e Verona. In che modo questi luoghi ti ispirano e come sei riuscito a delineare lo stile che oggi ti caratterizza?
Cerco di scrivere sempre, di prendere nota, registrare bozze, cogliere suggestioni e guardarmi costantemente attorno, soprattutto cercando negli angoli meno illuminati. Ho sempre sentito un’attrazione particolare verso la Sardegna sin da ragazzino, quando visitavo questa terra con la mia famiglia. Ricordo un senso di mistero ma anche di serenità. Sentimenti che non provo ovunque. Per tanti motivi negli ultimi anni mi sono ritrovato spesso qui fino a trasferirmici e quindi inevitabilmente ne sono stato ispirato. Il mio “stile” non è quindi qualcosa di predefinito, so che suonerà molto banale, ma al di fuori dei primi anni in cui facevo musica coi C+C in cui cercavo di seguire un’estetica ben precisa, ora cerco semplicemente di “vivere”, fare esperienze, assorbire, metabolizzare ed infine, quando sento che deve succedere o voglio che succeda, esprimere.
“La via di un pellegrino” è il titolo del tuo nuovo album. Come nasce?
Nasce negli anni precedenti alla pandemia quando in costante movimento tra Sardegna e Verona ho scritto la maggior parte dei brani, che poi durante la prima pandemia ho cominciato a produrre nello Studio Tega di Veronetta (casa di produzione dei C+C=Maxigross e Duck Chagall).
Questo progetto arriva dopo quattro anni dal primo album: come hai lavorato alla produzione delle varie tracce, a livello di testi e di sound?
Sentivo il bisogno di cavarmela da solo, dopo anni ad aver lavorato in gruppo o con altri produttori. Volevo capire i miei limiti per imparare qualcosa di nuovo sulla mia pelle e poi potermi nuovamente dedicare ad altri progetti, lavorando con altre persone, che è l’aspetto della Musica che ritengo più importante: la collaborazione. Dal punto di vista sonoro e produttivo ho utilizzato tecniche nuove, partendo da batterie elettroniche, campionamenti, echi a nastro, riverberi a molla, flanger anni ottanta e registratori a cassette. Volevo evitare di partire dalla chitarra, che è il mio strumento, con cui ho più confidenza, ma che allo stesso tempo mi porta a percorrere strade già battute. Avevo bisogno di prendere la distanza da quello che conoscevo già per fare qualcosa di nuovo, innanzitutto per me stesso.
C’è un legame tra le varie tracce?
Ho cercato di dare un’uniformità sonora e tematica. Lo vedo effettivamente come un cammino, con le sue pause e le ripartenze, le valli e le cime.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto preparando il nuovo set solista, che non sarà più semplicemente voce e chitarra com’è stato per anni. Poi prossimamente uscirà il nuovo disco dei C+C, e altre collaborazioni. Quindi conto di ricominciare a suonare dal vivo con una certa costanza. Stravolgimenti globali permettendo, ma ormai questo è il Pianeta che abbiamo trasformato e così ci comporteremo di conseguenza.
C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Il Petricore è quella particolare sensazione olfattiva che si percepisce al battere della pioggia sulla terra da tempo asciutta.
Tobjah for Siloud
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