Dunkan è un ragazzo di 29 anni cresciuto tra gli Stati Uniti e l’Italia, la cui impronta internazionale deriva proprio dalle sue origini e dal suo bilinguismo. Il suo stile si caratterizza nella genuinità e nel fatto che non ama fingere o avere a che fare con chi finge. Il suo nuovo album si intitola “Americano” e si presenta, non a caso, intriso delle influenze della cultura d’oltreoceano.
Nome: Edoardo
Cognome: Medici
In arte: Dunkan
Età: 29
Città: Milano
Nazionalità: Italo-americano
Brani pubblicati: No cap, Zaza (feat. Rioda Forego), Jersey Boy, Southside, 2YNG (feat. Miro), Americano
Album pubblicati: Americano
Periodo di attività: dal 2021
Genere musicale: Rap, Trap
Piattaforme: Spotify, YouTube, Apple music, iTunes, Amazon music, ecc.

Chi è Dunkan nella vita di tutti i giorni?
Un ragazzo di 29 anni che viene da Flemington, New Jersey (USA). Sono cresciuto insieme a mia madre e a mio fratello tra gli Stati Uniti e l’Italia. Sono sempre stato molto appassionato di musica. Oltre a questo interesse, mi hanno sempre affascinato anche gli sport e la stand up comedy, guardo con grande avidità highlights e video a riguardo. Per il resto, passo la maggior parte del mio tempo chiuso in studio a fare musica. Attualmente vivo a Milano, ma fin dai miei primi anni ho cambiato tante città tra gli States e l’Emilia-Romagna, la regione da cui proviene mia madre.
Ho giocato a Rugby per dieci anni prima di rompermi il crociato, ben cinque volte. Dopo l’ennesimo infortunio mi sono cimentato in diverse professioni, tra cui il cameriere, l’addetto alla security, l’assistente fonico… Ora ho un mio studio di registrazione che gestisco insieme ad altri ragazzi e che mi dà la possibilità di sopravvivere e di rimanere sempre a contatto con la musica, sia sviluppando il mio progetto e sia confrontandomi con tutti gli artisti del roster. Quindi, fondamentalmente, potete trovarmi in studio a fare musica 24/7.
Come nasce il tuo nome d’arte e in che modo lo hai scelto?
La storia è abbastanza curiosa. L’ho scelto io, ma come accade nella maggior parte di questi casi per degli artisti che devono scegliere un nome d’arte, ero indeciso. Avevo letto da qualche parte che Post Malone aveva trovato il suo pseudonimo con un generatore di nomi. Così ci ho provato anche io, ma i risultati che venivano fuori facevano più ridere che altro e non avevano alcuna attinenza logica con la mia storia.
Dopo questo esperimento fallimentare, mentre spulciavo siti per capire come fare, ne trovai uno dove c’era un’intervista a DJ Premier che consigliava come trovare il proprio nome d’arte (giuro) e spiegava che il nostro nome di battesimo non è il nome che ci siamo scelti, ma quello che ci hanno dato i nostri genitori.
L’unico nome che possiamo veramente scegliere è il nome d’arte. A quel punto pensai, quale nome mi darei se potessi tornare all’anagrafe e scegliermelo io? Fin da quando avevo 4/5 anni chiedevo sempre a mia mamma perché mi avesse chiamato Edoardo (che gli americani pronunciano “Eduardo” o “Iduardo”) dal momento che tutti i bambini che conoscevo si chiamavano: “Mat”, “Anthony”, “Derek” o con altri nomi simili. Le chiesi come mai io, invece, non potessi chiamarmi “Duncan”. L’intervista di DJ Premier mi aveva sbloccato questo ricordo e, da quel momento, mi è stato subito chiaro quale sarebbe stato il mio nome d’arte. La “K” l’ho aggiunta unicamente per differenziarmi dal diffuso nome comune “Duncan”.
Come nasce la tua passione per la musica e perché il rap è il genere che meglio ti rappresenta?
Mi verrebbe da rispondere che esiste da sempre. Fin da quando mio fratello ed io dovevamo viaggiare da soli in aereo dagli States all’Italia e viceversa, con i nostri primi CD player ascoltavamo musica per far passare le 10/12 ore di viaggio. Mio fratello ascoltava principalmente punk e rap, ma gli piaceva più il punk. In quegli anni negli Stati Uniti tutti cominciavano ad ascoltare hip hop, erano proprio gli anni del boom del genere. Io ascoltavo tutti i suoi CD, finché mia madre mi ha regalato “Get Rich Or Die Tryin” di 50 cent. Ancora oggi è uno dei miei dischi preferiti.
Qui, in Italia, sono sempre stato “quello che ascolta rap” o “quello che si veste largo” o, da più piccolo, “quello che va in skate”. In America era normale, mi ero facilmente avvicinato a quella cultura perché era ovunque. Crescendo ho cominciato a fare beatbox per degli amici che facevano le battle di freestyle. Successivamente, in seguito all’ennesimo infortunio al ginocchio, ero molto giù mentalmente e avevo un gran bisogno di trovare una valvola di sfogo. Scrivere testi è stato il mio modo di esorcizzare quel momento, mi ha fatto stare subito meglio. È stato proprio in quel periodo che ho cominciato a studiare sound engineering e produzione audio: volevo imparare il lavoro del fonico per registrarmi da solo.
La musica, alla fine, in un modo o nell’altro, ha sempre fatto parte della mia vita. Il rap è il genere che mi ha cresciuto, che ho ascoltato di più e con il quale sento di riuscire ad esprimere meglio quello che penso, che sento e che vivo.
Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato a livello musicale?
Da piccolo, indubbiamente, Notorious B.I.G, 2Pac, Eminem e 50 Cent. Ho sempre amato anche il blues, il soul e la musica folk americana. Crescendo, poi, ho ascoltato tantissimo Mac Miller, Joey Badass, Kendrick Lamar, Drake, Meek Mill, Travis e Young Thug.
Negli ultimi anni ho visto nascere e crescere la New York Pain con esponenti come Lil Tjay e, inevitabilmente, ascoltando quel genere, anche il mio stile e la scelta delle melodie che utilizzo si è avvicinato molto a quella corrente. Se dovessi fare la top 5 di artisti che mi ispirano direi: Lil Durk, Lil Baby, Tjay, Roddy Rich e Drake.
La tua impronta internazionale deriva dalle tue origini e dal tuo bilinguismo. In cosa si caratterizza il tuo stile?
Nella genuinità e nel fatto che non mi piace fingere o avere a che fare con chi finge. Quello che sto facendo deriva dalla necessità di esprimermi in musica. Vedo il mio progetto come l’unico modo che ho per sentirmi bene con me stesso.
Il mio stile non è costruito seguendo un trend o dei modelli di marketing, è semplicemente come sono e come vivo. Devo esprimermi con musica e testi perché ne ho la necessità, faccio in un modo che il mio progetto mi rispecchi e che possa rappresentarmi, sia nella ricerca delle sonorità che nel linguaggio. Utilizzo sovente degli inglesismi perché è così che sono abituato a parlare con il mio fratello di sangue, con mia madre e con la mia famiglia.
Il tuo nuovo album si intitola “Americano” e si presenta, non a caso, intriso delle influenze della cultura d’oltreoceano. Come nasce?
Nasce dal fatto che, ad oggi, non sento di essere rappresentato nella musica italiana. Siccome non sono l’unico con questo tipo di influenze e di vissuto, l’ho realizzato proprio per restituire un riferimento a tutte le persone come me: persone normali che vivono una vita fatta di obiettivi complessi e di duro lavoro, individui che spesso si sentono incompresi. Ho avuto la fortuna di trovare delle persone meravigliose che mi hanno aiutato nella creazione dell’album, come i producer Thirty e Idua che si sono occupati di gran parte delle produzioni. In sintesi, nasce tutto da una grande fame e da un duro lavoro di squadra.
Come hai lavorato alla produzione del disco e qual è il filo conduttore tra i 14 brani che lo compongono?
Tutto l’album è stato prodotto all’interno del nostro studio di Milano THE SPOT. Abbiamo selezionato le canzoni che più ci piacevano e rappresentavano. Avevamo a disposizione una lista di almeno trenta/quaranta demo che avevo realizzato e abbiamo scartato quelle che non volevamo inserire all’interno dell’album. Alcune canzoni sono state scritte due anni fa, altre sono molto più recenti. Il metro di selezione è stato questo: scrivendo una canzone che ci sembrava più forte di un’altra già scelta, semplicemente, la sostituivamo. Il filo conduttore è il sound, il significato dei testi ed il team che ci ha lavorato, un insieme di componenti che ha dato all’album un’unica anima.
Quali storie racconti nei brani e cosa ne ha ispirato la scrittura?
Sicuramente le esperienze che ho vissuto e le lezioni che ho imparato. In brani come “Americano”, per esempio, parlo della percezione sfalsata che, spesso, in Italia abbiamo sulla realtà degli Stati Uniti. In “Long Time”, invece, descrivo una condizione di distanza che porta i rapporti a deteriorarsi, soprattutto quelli con i familiari. O ancora, “Always” racconta molto sui miei valori: è fondamentale, per me, esserci sempre che chi mi ha sempre sostenuto. Insomma, ogni canzone ha un significato ben preciso.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro e dove vuoi arrivare con la musica?
Vorrei arrivare al punto in cui la mia musica possa essere ascoltata da un nutrito numero di persone avendo un’influenza e divenendo fonte di ispirazione per l’esistenza di qualcuno. L’intenzione è quella di arrivare agli ascoltatori in modo genuino e veritiero, trasmettere dei messaggi che possano rivelarsi utili.
Un’altra soddisfazione, per me, sarebbe dare un contributo finalizzato al riportare in auge la musica italiana nel panorama internazionale. Spesso sento questa espressione: “portare l’America in Italia”. A questo proposito penso che, oltre alla mentalità business friendly americana, sicuramente utile, sarebbe bello portare all’estero anche una cultura molto più incentrata sull’arte, come quella italiana.
Detto ciò, ho già tante canzoni pronte e, insieme al mio team, ci stiamo muovendo per organizzare degli eventi con lo scopo di creare una community. Un movimento che permetta alle persone di partecipare attivamente e di sentirsi rappresentate. In inglese si dice “to give back to the community”. Ecco, questo è uno dei miei obiettivi principali.
C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Sono Dunkan e dal 14 aprile è disponibile su tutte le piattaforme digitali il mio primo album, “Americano”. Spero vivamente che vi piaccia e vi invito a farmi sapere cosa ne pensate! Grazie mille.
Dunkan for Siloud
Instagram: @dunkydunkan
YouTube: Dunkan
Credits foto: Outmind
Credits: Homerun Promotion