InTheMusic: Dodicianni, interview

Nato da una madre lo ha fatto crescere con la lirica e l’opera italiana fin da subito, Andrea Cavallaro ha dedicato ben dodici anni al conservatorio a studiare musica. Dal tempo passato a studiare nasce il suo nome d’arte: Dodicianni. La musica secondo lui prima di tutto è immaginario e racconto. “Mio padre scrive per il giornale” è il titolo del tuo ultimo singolo che parla della sua difficoltà nel trovare felicità in una delle città più ricche d’Italia, Bolzano.

Nome: Andrea 
Cognome: Cavallaro 
In arte: Dodicianni 
Età: 31
Città: Venezia Nazionalità: Italiana
Brani pubblicati: Discoteche, Mio padre scrive per il giornale
Album pubblicati: Puoi tenerti le chiavi
Periodo di attività: dal 2013
Genere musicale: Indie, Folk, Pop
Piattaforme: Spotify, YouTube, Instagram
Foto di Theo Soyez

Chi c’è dietro Dodicianni?

Sono nato in un piccolo paese nella provincia di Venezia, ma ho avuto la fortuna di poter viaggiare molto inseguendo e coltivando le mie due più grandi passioni: la musica e l’arte. Ora vivo da qualche anno a Bolzano, anche se non so se ancora per molto.

Quella del tuo nome d’arte è una scelta un po’ insolita, ma ci è piaciuta tanto. Ha un significato specifico?

Un vecchio amico mi chiamava così per via dei dodici anni passati al conservatorio a studiare pianoforte e così l’ho portato con me. Mi piaceva, lo trovavo sciocco al punto giusto da piacermi. Nel mondo della classica non c’è molta ironia ed è un peccato, anche perché i più grandi compositori erano spesso tutt’altro che dediti ad una vita risoluta e monastica.

Il tuo percorso nella musica è cominciato da piccolo, è culminato nel tuo essere artista e ha come tappa intermedia la laurea al Conservatorio. Quali sono state le tue tappe più importanti nel settore fino ad oggi?

Credo che la tappa più importante sia stata nascere da una madre che mi ha fatto crescere con la lirica e l’opera italiana fin da subito nelle orecchie; penso ci sia ancora molto di quegli ascolti nel mio modo di strutturare la costruzione musicale. Poi certo il conservatorio è qualcosa che ti segna, in tutti i sensi. Se dovessi dire la tappa più importante credo però sia stata quando, poco tempo fa in realtà, sono finalmente riuscito a vedere il pianoforte come un amico, un complice. Ci sono dinamiche molto strane nel rapporto tra un musicista e la musica stessa.

Quali sono i tuoi riferimenti artistici?

Farei fatica a dirti una manciata di nomi che all’apparenza potrebbero sembrare scollegati, ti direi piuttosto che sono stato da sempre molto affascinato dal concetto di buio e molti artisti li collocherei facilmente in questo filone: Dylan, George Harrison, The Notwist, Ray Lamontagne, La Femme, ma anche italiani come Andrea Laszlo de Simone, Francesco Bianconi, Colombre. La musica secondo me prima di tutto è immaginario, è racconto.

Sei un cantautore, un pianista, un compositore ed un artista. Quindi, oltre alla musica, nella tua vita c’è anche l’arte: qual è il tuo percorso anche in questo mondo?

L’arte contemporanea è entrata nella mia vita letteralmente per scherzo. La prima cosa che avevo fatto era una performance su Angela Merkel al limite tra goliardata e provocazione, ma che con grande sorpresa è stata presa piuttosto seriamente. Da lì ho continuato a giocare con questo nuovo mezzo, per me era ed è soltanto un nuovo modo di esprimermi, un tramite esattamente come può essere la musica, ma probabilmente con molte meno regole.

Come definiresti il tuo modo di fare musica e in che modo viene influenzato dall’arte?

Le mie produzioni musicali sono molto eterogenee, capisco che possano sembrare cose molto distanti tra di loro, e probabilmente è proprio così, ma la verità è che ognuna rappresenta un esatto periodo della mia vita con le persone, le città e le passioni che coltivavo in quel determinato momento. Questi nuovi lavori, per esempio, sono molto influenzati da un certo tipo di fotografia e di iconologia ben precisa per esempio: c’è molto Warhol, Dylan degli anni 80 e un certo tipo di cinema noir.

“Mio padre scrive per il giornale” è il titolo del tuo ultimo singolo, fatto di una serie di fotografie di una quotidianità fatta di silenzi e incomprensioni. Cosa puoi dirci di più?

Come ti dicevo vivo da qualche anno a Bolzano, una delle città più ricche d’Italia se non la più ricca. La cosa che più mi fa effetto però è che nonostante questo “incredibile livello qualitativo della vita” non ho visto molta felicità. Il concetto di felicità e di condivisione, anche familiare, è uno dei macro-temi che mi ha sempre affascinato, e ho provato quindi a raccontare tutto questo in una piccola storia rubata ad una confidenza che mi era stata fatta.

In che modo questo progetto si relaziona con le tue produzioni passate e in che modo anticipa quellefuture?

Questa è davvero una domanda difficile. È sempre complicato guardare alle proprie cose con un occhio esterno. Credo che con le cose passate ci sia una continuità legata al punto di vista. Sono sempre state le piccole storie e le immagini che mi hanno portato a scrivere canzoni, e anche questa volta è così. Nel futuro vorrei riuscire a raccontare ancora di più e ancora meglio attraverso un punto di vista cinematografico. Quanto mi piacerebbe, ogni volta che qualcuno ascolta una mia canzone, poter essere lì con lui a continuare a descrivere i minimi dettagli della scena, gesticolando, mimando,sussurrando.

Quali progetti hai per il futuro?

Vorrei tornare a viaggiare, quando sarà possibile. Ho estremamente bisogno di nutrire la mia curiosità. Non saprei cosa potrebbe portare nella mia musica, non escludo nulla a priori. È un po’ come con il cibo, no? Se domani sei in Alsazia una Flammkuchen la dovrai pur mangiare.

C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?

Vorrei dire di ascoltare con gli occhi chiusi “Be Here Now” di George Harrison. È come fare un bagno, in un mare caldo, la notte.

Dodicianni for Siloud

Instagram: @andreadodicianni 
Facebook: @Dodicianni
YouTubeDodicianni

Credits: Ivonne Ucci, Valentina Aiuto

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