Matteo Marchese lavora come musicoterapeuta per handicap gravi e tutor presso un ente di formazione; “suona” le persone che faticano a relazionarsi con il mondo fuori da sé e usa l’ascolto come forma di interplay tra sé e la persona in difficoltà. Nel mondo della musica il suo progetto da solista si è avviato con due singoli: “Mai Stato” e “Soul Please”; i due brani anticipano il suo futuro disco che vorrebbe essere un sunto di venti anni come musicista e produttore.
Nome: Matteo Cognome: Marchese In arte: Matteo Marchese Età: 45 Città: Carobbio degli Angeli (BG), Genova Nazionalità: Italiana Brani pubblicati: Mai Stato, Soul Please Periodo di attività: dal 2022 Genere musicale: Indie, elettronico Piattaforme: Spotify, iTunes, Apple Music, Deezer, Tidal, YouTube

Chi è Matteo Marchese quando non fa musica?
Quando non faccio musica sembra strano, ma continuo a fare musica in forma diversa. Lavoro come musicoterapeuta per handicap gravi e tutor presso un ente di formazione. Nel primo caso “suono” le persone che faticano a relazionarsi con il mondo fuori da sé, mentre nel secondo caso uso l’ascolto come forma di interplay tra me e la persona in difficoltà. Diciamo che per come vedo io la musica, ha molto a che fare con la vita. Parliamo di ascolto, parliamo di respiro e parliamo di tempo e ritmo. Da over 40 mi sono fatto l’idea che l’unico modo per vedere e stare al mondo è quello di cercare il silenzio sia tra le note che tra le persone.
Perché hai deciso di mantenere la tua identità anche in ambito musicale?
Mi chiamo Matteo da sempre, ma per una sorta di viaggio solo recentemente ho cominciato ad usare il mio nome completo. Teo era una parte di me, ma ne mancava un’altra sia a livello di crescita interiore che a livello sonoro.
La musica rappresenta per te, da sempre, più di una passione. Ti andrebbe di raccontarci il tuo percorso fino ad oggi?
L’incontro con la musica è avvenuto prima in famiglia, dove i miei genitori e i miei nonni ascoltavano dalla musica classica al jazz. Poi alle medie ho avuto una prof particolarmente appassionata all’ascolto e alla musica e lì ho capito che in nessun’altra zona del sapere avrei potuto trovare il mondo che vivevo ascoltando, come insegnava lei. Così mi sono trovato a diventare una specie di ascoltatore del mondo e poi delle persone. Il passaggio successivo era esistere in questo mondo di rumori e di silenzi.
Cosa ispira principalmente le tue produzioni?
Da sempre sono attratto dalla musica del mondo, soprattutto se di estrazione popolare e povera. Per me la musica arriva dai canti africani e dalle ninne nanne. Ho adorato e ascolto tuttora i grandi maestri della musica latino-americana e della musica africana. Amo la musica che serve per far star bene le persone piuttosto che quella dove l’artista mostra il suo valore.
Spesso, per fortuna, una cosa non esclude l’altra. Penso a Miles Davis in “Kind of Blue”, ai Griot del centro Africa e alle dinastie di interpreti della Kora. E poi come manifestazione del mondo di oggi non posso stare senza l’hip-hop. Anche questo proveniente da ogni parte del mondo, da Kendrick Lamar a Swindle al rap del nord Africa. Ma più ci penso e più mi rendo conto che ogni musica mi parla di terre, posti e persone e non posso fare a meno di sentire.
Contaminazione, espressione ed esperienza: questi sono tre elementi fondamentali che caratterizzano il tuo progetto artistico. Come definiresti ciò che fai e come hai lavorato ad un’identità che ti rappresentasse al meglio?
Credo che il mio percorso sia di messa a fuoco del fatto che non posso esistere solo in un posto, in un genere, in un suono. Ogni brano parla di aspetti del mio sentire che partono da posti diversi per incontrarsi in zone comuni. Il mio modo di sentire la musica ha a che fare col vedere un viaggio. Un posto. Questo posto è condiviso da tutti i suoi abitanti e ne è la somma artistica. Come camminando per le vie di Genova senti contemporaneamente De Andrè, la cumbia, il rap e la salsa. Si tratta di trovare il denominatore sonoro e parlare di Genova come di un posto dove nasce una lingua nuova.
Il tuo progetto da solista si è avviato con due singoli: “MAI STATO” e “SOUL PLEASE”. Come nascono e in che modo si relazionando tra loro?
Tutti i brani del disco che uscirà nascono da un desiderio. “Mai Stato” rappresenta per me un passo importante. La mia prima volta come cantante. Il disco voleva essere un sunto di venti anni come musicista e produttore. Mi sarebbe piaciuto suonare tutto. Poi ad un tratto, quando ti trovi sull’orlo del precipizio, salti. E così ho pensato di provare a cantare. Non per egocentrismo. Mi piaceva l’idea di mettermi in una posizione scomoda, mai vista. Ti richiede maggiore attenzione e ti apre l’armadio sugli scheletri.
Cantare è un gesto intimo, credo. Non c’è tra te e chi ascolta uno strumento. “Soul Please” invece funziona come un po’ tutti gli altri brani del disco dove ho coinvolto ospiti. Vieni nel mio mondo e descrivilo a parole tue. La base parte dall’elettronica come scenario, ma si sporca di spezie africane. Il rigore del computer contro le modulazioni metriche del tempo ternario leggermente “squantizzato”. Per semplificare, prendete i Massive Attack e fateli suonare da una band del Camerun.
Per trovare un terreno comune ai due mondi ho coinvolto Luigi De Gasperi aka T-Bone (New York Ska Jazz Ensamble, Casino Royale, Mau Mau, Giuliano Palma), che con il suo trombone richiama i profumi di New Orleans e della musica Creola. Il pezzo rimane oscuro e strisciante, con un’estetica tagliente, grazie al produttore Filo-Q. Mancava la voce. Ho pensato a Ila perché con i suoi Happy Trees ha sempre cercato luce e morbidezza e il contrasto poteva essere molto interessante. Oscurità e luce.
Tra qualche mese rilascerai il tuo primo album, che sicuramente riuscirà a mostrare al meglio la tua visione di arte. Cosa puoi anticiparci?
Di solito ho la percezione che quando una persona ascolta un disco tenda ad anticipare il risultato, un po’ come se si aspettasse qualcosa prima della prima nota. Spero di aver creato un disco che ad ogni ascolto dia sapori nuovi. Mi piacerebbe che il pubblico si sedesse e ascoltasse senza anticipare. Ho costruito la mia casa musicale e tutti sono i benvenuti. Venite a vedere cosa c’è. La caratteristica del disco, oltre a contenere tanti generi e commistioni di generi, è quella di avere ospiti che hanno ragion d’essere per la loro visione della musica e capacità di ascolto. Il mio disco vuole essere una città di persone e suoni.
Questo album sarà un momento molto importante per Matteo, sia come artista che come persona. Cosa cambierà nella tua musica e nella tua vita?
Dopo più di venti anni al servizio di altri artisti, per me è un momento molto interessante. Solo il fatto di parlare di me è strano. Ti costringe a guardarti e a pensarti. A volte basta un’osservazione attenta di sé per produrre un cambiamento e credo che mettere un punto sul mio percorso per vedere dove sono arrivato come uomo e come ascoltatore del mondo sia già di per sé un’esperienza trasformativa.
Quali progetti hai per il futuro?
Ho dei progetti musicali che mi coinvolgono come musicista e produttore, che usciranno dopo settembre. Un disco di cumbia elettronica con i miei fratelli Viva Viva Malagiunta. Un disco di musica funk da me scritto ma che uscirà come Il Funk Degli Orsi e altri progetti che mi vedono coinvolto come batterista. Magari un giorno finirò il mio secondo libro, ma non ho fretta.
C’è qualcosa che vorresti dire ai nostri lettori?
Spero che la mia musica vi faccia stare bene.
Matteo Marchese for Siloud
Instagram: @matteomarchese_dot Facebook: @teomarchesedrum YouTube: Matteo Marchese Credits foto: Ila Scattina Credits: UNOMUNDO Press & Promo Agency, The prisoner records, The Orchard